…Ghetto

Questa sera, a Venezia, Mahler avrà il compito di farci riflettere sul Ghetto, fondato a Venezia cinquecento anni fa. Come possa accadere questo miracolo della riflessione non è chiaro a nessuno. Ma Mahler è una delle mie molte fisse sinfoniche e non me lo perdo per tutto l’oro del mondo. Non mi fa demordere neppure il fatto che il compositore, in un clima di antisemitismo, si sia convertito per far carriera. Non è questo che mi scandalizza. La musica sopravvive alle meschinità degli uomini, se di musica si tratta.
Ma il problema è un altro. Anche grazie a Moked e a Pagine Ebraiche si è finalmente cominciato a dibattere sul senso di celebrare/festeggiare/commemorare/ricordare il Ghetto. Un malinteso deve pur esserci stato se attorno all’argomento si stanno accalorando il dibattito e la polemica. Qualcuno ha avviato un’operazione che, scendendo per una china più ripida del previsto, è diventata man mano reclamistica, spettacolare. Ora (siamo onesti!) è inutile dire che l’immagine festeggiante e celebrante che la stampa internazionale dà di questo evento è tutta colpa dei giornalisti che non hanno capito perché ignoranti. Forse a quei giornalisti è pervenuto un messaggio errato, quanto meno sbavato, e i responsabili di quel messaggio forse siamo noi – scrittori, giornalisti, pubblicisti, figure delle istituzioni e collaboratori vari. È ovvio a tutti che Mahler, tanto per dirne una, con il Ghetto non ha proprio nulla a che fare. E il concerto che lo mette al centro dell’occasione non può che apparire un modo superficiale di riunirsi per un’occasione sociale, come per puro intrattenimento o per porgere distinti saluti a tanti amici e autorità. Nessun significato scaturisce dalla musica di Mahler che possa essere collegato in modo diretto, facilmente fruibile dal grande pubblico (non a pochissimi eletti, colti e studiati) e trasmettere il senso della segregazione degli ebrei nel ghetto.
Questo dibattito sul senso del ghetto dà anche, fortunatamente, l’occasione di riflettere su quello che è diventato ormai il problema della memoria: come ricordare e come commemorare. Riguarda la Shoah, ovviamente, ma è più facile e meno impegnativo parlare di Ghetto. Si parte, innanzitutto, dal decidere che cosa si sta commemorando. Il Ghetto è stato una sventura, una discriminazione, una separazione coatta, o è stato invece un premio, un atto di generosa difesa degli ebrei da parte della Repubblica di Venezia che ne voleva tutelare l’incolumità? Gli ebrei ci sono vissuti in condizioni desolate e squallide, vicine all’abiezione, o vi hanno agiatamente coltivato la filosofia dello spirito? Si dirà: un po’ questo e un po’ quello. Se qualcuno, allora, desidera ricordare che da tanto letame sono spuntati dei fiori c’è anche chi di quel letame desidera ricordare lo sgradevole olezzo.
La cultura che il Ghetto ha saputo sviluppare e i nomi dei poeti e degli studiosi che ha prodotto, e le accademie musicali che ha ospitato, e i rapporti con i cristiani che ha intrattenuto, e quant’altro, non riusciranno mai, a mio modestissimo parere, a controbilanciare l’abiezione in cui il Ghetto ha tenuto le migliaia di persone che per trecento anni vi sono state rinchiuse, schiacciandone lo spirito, impedendo loro un vivere libero, pur nel contesto relativo dello spirito di ‘libertà’ dei loro tempi. Quegli ebrei ‘sapevano’ di vivere in un Ghetto, mentre gli altri godevano del privilegio di esserne fuori. Quegli ebrei ‘sapevano’ di essere i diversi, e la diversità era stata imposta loro, mentre altrove, in altre parti del mondo, se del caso, erano stati loro stessi, per motivi diversi, a scegliersi la diversità e la separazione. La differenza fra una situazione e l’altra stava tutta nella possibilità di scelta. Il Ghetto non è solo ‘stato’, ha anche prodotto una mentalità, una chiusura, un pudore, e un senso di inferiorità. Forse, chissà, anche un senso inconsapevole di colpa. Uno fra i tanti caricati sulle spalle degli ebrei dalla storia generosa dell’Occidente. Naturalmente, non tutti hanno vissuto il Ghetto in questo modo, ci sono stati di certo anche i privilegiati, i pochi o i tanti. Ma quando avviene un incidente automobilistico non si festeggia per far festa ai sopravvissuti; ci si limita a piangere i morti. Per allargare il discorso, come considerano la storia del Ghetto di Roma gli ebrei romani? Un ghetto certamente peggiore di quello di Venezia, ma è ben difficile stabilire, in base a una graduatoria, dove finisca la sofferenza e inizi la gioia, fino a dove si debba piangere e quando sia venuto il momento di ridere. Si continua a vivere, con ottimismo anche, ma si continua anche a ricordare il passato senza deformarne la realtà a proprio uso e consumo.
Certo, si può rimuovere, pensando che se sofferenza c’è stata non è stata la mia. Quindi, avanti. A soccorrerci su questa strada è il revisionismo storico, quello del ‘e d’altra parte…’, ‘a conti fatti, tuttavia…’, ‘ma anche loro, del resto…’. Così, Mussolini non era in fondo così fascista e ha costruito ponti e strade, Stalin, da parte sua, ha messo in piedi l’economia coi piani quinquennali, e il Ghetto di Varsavia era peggio del Ghetto di Venezia. Per salvare ciò che si vuole salvare si ricorre al relativismo (abusandone) e, quando anche questo non basti, alla contestualizzazione (‘per quei tempi, vivevano benissimo’) o, al contrario, alla decontestualizzazione (‘pensa a come vivono e muoiono oggi i migranti! In confronto il Ghetto era un paradiso’). Il revisionismo, oltre che offrire un’occasione a storici in cerca di interessata originalità, rilegge la storia da ottiche personalizzate. Si potrà affermare che ogni lettura storica è soggettiva. Bene, fra la soggettività dello storico e quella di chi ha vissuto direttamente l’esperienza, preferisco cercare di calarmi nella seconda. È più affidabile e più onesto. E più disinteressato, come direbbe Kant.
Perché, infine, tanta polemica? Perché, al di là della difficoltà di conoscere eventi e sentimenti veri della storia passata, il nostro problema è Come ricordare. La via più facile è quella della spettacolarizzazione, quella cioè scelta per il cinquecentenario del Ghetto. Ma il problema riguarda la Shoah ben più del Ghetto. In fin dei conti, per il Ghetto aspetteremo altri cento anni, mentre la commemorazione della Shoah ce la ritroviamo ogni anno. E sempre più ingombrante. E anche questa stiamo già revisionandola. Perché, per dimostrare che la nostra storia non è una storia tutta ‘lagnosa’, fatta di persecuzioni e martìri, ci stiamo dando alla revisione delle commemorazioni. Basta piagnistei! Meglio un concerto klezmer, o una commedia allegra. A pensarci bene, anche a Theresienstadt organizzavano concertini e commediole.
Con gli storici che cercano di capire non si può che empatizzare, ma prima di rileggere e revisionare con occhi del Duemila gli eventi del passato, specie se fatto di dolori, ci si dovrebbe sforzare di calarsi nella storia, ‘di mettersi nei loro panni’. È troppo facile fare gli scienziati distaccati e vedere da fuori la storia degli altri, seduti alla scrivania in un bel cottage in riva al mare. La storia va vissuta innanzitutto da dentro. Il primo passo è calarsi nella comunità e nella sua vita. Non è forse un caso che a Pesach ci venga insegnato che l’esodo dall’Egitto lo abbiamo vissuto anche noi, in prima persona. ‘Come se’ ci fossimo stati anche noi, naturalmente; ma quel ‘come se’ è una richiesta, un monito a identificarsi. ‘Io’, non ‘voi’ o, peggio, ‘loro’. Un invito a non vergognarsi di essere vissuti anche noi dentro al Ghetto, rinchiusi, umiliati. Se però il Ghetto lo si guarda dall’esterno, è vero, tutto risulta molto più facile.

Dario Calimani, anglista

(29 marzo 2016)