Cantare Halleluyah
Non me ne vogliano, i miei pochi lettori. Mi sono più volte ripromessa di trattare argomenti meno pesanti, forse anche vagamente futili, ma non per questo, forse, di minor interesse.
Ricordo una cena di Shabbat in cui un interlocutore nuovo presente alla mia tavola, pensando di fare piacevole conversazione, mi chiese di cosa mi occupassi. Pur apprezzando l’intento provai a mantenermi sul vago: storia contemporanea. Sì ma che cosa studi, insistette lui. Di solito lavoro sulla Shoah e genocidi comparati, ma al momento ho in corso una ricerca sugli stupri di massa in Bosnia e in Rwanda negli anni Novanta come arma volta ad intaccare la ricostruzione postbellica. Silenzio generale, tintinnio di posate nei piatti.
Insomma lui se l’era cercata, ma in quel momento iniziai a pensare che volevo disperatamente interessarmi di moda, per esempio l’influenza napoleonica sull’abbigliamento rabbinico (davvero, ma non saprei da che parte iniziare con le fonti). E anche: gli influssi delle società ospiti su tzniut e vestiario (rifletto sulla modestia nel vestire da un paio d’anni almeno, dopo aver visto un burqa ebraico afghano esposto all’Israel Museum di Gerusalemme in occasione di un mostra su cui scrissero anche dalle pagine che mi ospitano).
Dunque, piena di buone intenzioni avevo deciso di intrattenere i miei cinque lettori scrivendo di musica israeliana, e siccome da due giorni fischiettavo tra me Halleluyah (quella cantata da Gali Atari con gli Halav veDvash all’Eurovision nel 1979 e risultata canzone vincitrice della manifestazione), di questo mi accingevo a raccontare.
Secondo il portale israeliano Sabranet, Halleluyah è tra le canzoni entrate nella storia della musica ebraica israeliana e si colloca al quinto posto per il pubblico israeliano, e al settimo in un’inchiesta più vasta condotta da Yediot Aharonot.
La canzone divenne famosa anche per la novità scenica in base alla quale Gali e i cantanti del gruppo entrarono sul palco uno alla volta, ognuno introducendo una nuova strofa.
Halleluyah, ho letto, fu cantata nuovamente, in inglese, vent’anni più tardi, alla fine dell’Eurofestival 1999 per commemorare le vittime delle guerre balcaniche.
Eppure dieci anni dopo, nel 2009, nell’indifferenza generale una delle principali artefici di quelle guerre venne accolta come un’eroina in patria, dopo essere stata rilasciata per buona condotta dal Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia all’Aja. Mi riferisco a Biljana Plavšić, biologa e Fulbright Scholar dalla brillante carriera accademica come botanica, prima di darsi alla politica sposando il nazionalismo serbo sino a baciare il paramilitare Željko Ražnatović detto “Arkan” come un eroe per il massacro di Bijeljina.
La Plavšić ricorre spesso nelle mie riflessioni sulla violenza di genere, in merito alle donne perpetratrici che hanno incentivato crimini efferati contro altre donne, ed in questi giorni ripenso a lei dopo la sentenza che vede condannato presso L’ICTY il suo grande amico Radovan Karadžić.
L’ex psichiatra e leader dei serbi di Bosnia dovrà scontare quarant’anni di carcere (purtroppo, come denunciano i sopravvissuti, non l’ergastolo) per il genocidio di Srebrenica dell’11 luglio 1995, in cui furono assassinati circa 8.000 uomini e ragazzi musulmani, e per crimini di guerra contro la popolazione civile nell’assedio di Sarajevo durato oltre tre anni e mezzo ed in cui perirono circa 10.000 persone.
Anche Karadžić, come la Plavšić, era stato arrestato da latitante in patria, dove aveva ripreso ad esercitare sotto falso nome la professione medica.
Non molto diverso da quanto accaduto a un altro incriminato eccellente: l’altrettanto famigerato generale serbo Ratko Mladić, responsabile esecutivo dell’assedio di Sarajevo e del genocidio commesso a Srebrenica insieme all’amico Arkan, nonché della creazione di campi di concentramento destinati allo stupro “etnico” e alla generazione dei cosiddetti figli del nemico (ovvero: stuprare donne musulmane cercando di renderle gravide e costringendole a portare a termine la gravidanza per impedirne il reinserimento nella società patriarcale di provenienza, se fossero sopravvissute).
Mladić, poverino, pare soffrisse persino di depressione, non tanto per le atrocità di cui si era macchiato ma per la vita da ricercato che fu costretto a fare fino all’arresto nel 2011, nonostante la rete omertosa di solidarietà che lo proteggeva sino a concedergli il lusso di rilassarsi alla partita della nazionale allo stadio di Belgrado.
Ma forse, a commemorare la fine dei dieci anni che avevano distrutto la Jugoslavia, lacerato i Balcani ed importato il radicalismo islamico prima qui ignoto, quando all’Eurofestival del 1999 cantavano Halleluyah ci credevano davvero.
,הללויה לעולם
הללויה ישירו כולם
במילה אחת בודדה
הלב מלא בהמון תודה
.והולם גם הוא – איזה עולם נפלא
Haleluya la’olam,
haleluya yashiru kulam
bemila achat bodeda
halev male behamon toda
veholem gam hu heize olam nifla.
Haleluya to the world,
every one will sing
One word only
and the heart is full of thanks
And beats as well what a wonderful world.
Sara Valentina Di Palma
(31 marzo 2016)