Imre Kertész (1929 – 2016)
È morto a casa sua a Budapest, nonostante si fosse definito un “Berliner” in aperta polemica con il suo paese, quell’Ungheria di cui è stato il primo premio Nobel per la letteratura, nel 2002 “Per una scrittura che sostiene la fragile esperienza dell’individuo contro la barbarica arbitrarietà della storia”. Deportato ad Auschwitz nel 1944 e liberato a Buchenwald nel 1945, Imre Kertész (qui ritratto da Isolde Ohlbaum a Berlino nel 2006) è stato traduttore di Freud, Nietzsche, Canetti e Wittgenstein oltre che autore di teatro, per sostenere la sua attività di scrittore. Essere senza destino, il suo primo romanzo, che lo ha reso famoso e racconta le vicende di un quindicenne nei lager, ha avuto un percorso tortuoso: scritto fra il 1960 e il 1973 fu prima respinto e poi, quando arrivò alla pubblicazione nel 1975, fu ignorato dal pubblico e il suo valore riconosciuto solo dopo la caduta del Muro di Berlino. Una vicenda molto simile – come ha scritto Anna Colombo sulla Rassegna Mensile di Israel – a quella di Se questo è un uomo, che Primo Levi si vide rifiutare “da Einaudi e dal pubblico” e che venne riscoperto dopo anni di silenzio. Un paragone fatto da molti, compreso Giorgio Pressburger che nel 2012 scriveva: “Sì, Imre Kertész è uno dei maggiori scrittori viventi e alcuni suoi libri sono all’altezza di Primo Levi, al quale si può paragonare per la somiglianza di temi e di esperienze umane fatte durante la Seconda guerra mondiale”. Nella trilogia composta oltre che da Essere senza destino, da Fiasco, del 1977 e da Kaddish per il bambino non nato, del 1990, racconta la Shoah a partire da vicende che trascinano il lettore in un’atmosfera alienante e angosciante, che porta a considerare i campi quasi un fatto scontato e naturale con sia i carnefici che le vittime talmente impegnati in una quotidianità fatta di problemi pratici da impedire ogni riflessione più vasta. Sono vicende solo parzialmente autobiografiche, scritte in bilico fra ironia e autoironia, che conducono il lettore a sprofondare nell’angoscia e nell’orrore. Per il rifiuto di ogni ideologia, politica o religiosa, e la convinzione che la Shoah sia il trauma dell’intera civiltà occidentale, Kertész è stato accostato anche a Boris Pahor, altro sopravvissuto che rifiuta ogni concessione ai suoi lettori, che rifiuta di consolare e rassicurare. Pessimista ma non distruttivo, ha scritto pagine chiare e piane in cui ha raccontato in tono spesso dolente di smarrimenti, riflessioni, rimpianti, disperazione. Autore di numerosi altri romanzi, Kertész aveva dichiarato più di una volta di pensare ad Auschwitz ogni volta che pensava a un nuovo romanzo. Con il più recente Io, un altro, per esempio, aveva nuovamente portato i suoi lettori a vagare con un sopravvissuto ad Auschwitz nei paesi dell’Europa centrale negli anni della cadua del muro di Berlino e dell’apertura dei confini, in un viaggio che visto da chi è sopravvissuto sia ai lager nazisti che alle carceri staliniane è un percorso di estraneazione totale, di alterità rispetto a se stessi, al mondo, addirittura al proprio passato. Dagli incontri in un paesaggio deserto e distruttivo fatto di incontri fugaci e allucinati, dal percorso allucinante in cui l’unica possibilità è aggrapparsi alla vita si salva l’unica meta importante, quella che porta ai grandi interrogativi, sul senso della vita. E della morte. Al contrario di Adorno, che nel 1966 aveva affermato che “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile”, Kertész si è detto convinto che in realtà era possibile scrivere poesie solo su Auschwitz: “Della Shoah, di questa realtà incomprensibile e caotica, possiamo farci un’idea realistica solo grazie all’immaginazione estetica . Ma allo stesso tempo il solo ripercorrere mentalmente la Shoah è una tale impresa, un tale sforzo mentale che piegherebbe anche la schiena più robusta e spesso va oltre le capacità di chi ci prova. Poiché tutto è avvenuto, è difficile anche solo immaginarlo”. Nel discorso di accettazione del Nobel ha poi spiegato: “Non ho cominciato a scrivere per convenienza e ciò che scrivevo non era rivolto a nessuno. Se la mia scrittura aveva un esplicito fine, era la fedeltà all’argomento e alla forma, e null’altro”.
a.t. twitter @atrevesmoked
(31 marzo 2016)