Enzo Campelli – Molte diverse Israele
Di recente il Pew Research Center ha reso pubblici i risultati di una ampia indagine condotta in Israele sul tema dei valori politici e del ruolo della religione nella vita pubblica e civile. La ricerca mostra l’esistenza di divergenze profonde, a volte vere fratture, non solo fra ebrei e arabi, ma fra i gruppi corrispondenti alle diverse modalità di identificazione ebraica. Si tratta di una rilevazione che ha utilizzato 5.601 interviste face-to-face con cittadini israeliani di età superiore ai 18 anni, condotte fra l’ottobre del 2014 ed il maggio del 2015. Il campione, multi-stadio stratificato, include 3.789 Ebrei, 871 Musulmani, 468 Cristiani, 439 Drusi e 34 persone di altra religione o senza appartenenza religiosa. Rispetto alla quota strettamente proporzionale, cinque gruppi (Ebrei della West Bank, Haredim, Arabi Cristiani, Arabi di Gerusalemme Est e Drusi) sono stati alquanto sovrarappresentati per consentire inferenze statistiche valide. Il margine di errore, variabile in relazione ai sottogruppi, è pari al 2.9% per gli ebrei intervistati. Gli ebrei intervistati si identificano, praticamente senza eccezione, in una delle quattro aree rappresentate nei grafici. I haredim (convenzionalmente tradotto come “ultra-ortodossi”) costituiscono il 9% degli ebrei e l’8% degli israeliani adulti; i Datim (“religiosi”) il 13% degli ebrei ed il 10% degli israeliani adulti; i Masortim (da masoret, tradizione), rispettivamente il 29% ed il 23%, mentre gli Hilonim (“laici”) il 49% degli ebrei ed il 40% degli Israeliani adulti. Il rapporto quantitativo fra questi gruppi è peraltro andato mutando nel tempo. Il confronto con i dati del 2002 mostra infatti un incremento percentuale di Haredim e Datim, una sensibile flessione dei Masortim ed una sostanziale stabilità del fronte “laico”. L’autoriconoscimento in una di queste aree è associata a differenze di atteggiamento e di opinione spesso molto marcate, tanto rispetto a questioni generali del rapporto fra halakha e principi democratici, quanto ai temi connessi al conflitto palestinese che, infine, a problemi molto concreti della vita civile, come le norme relative al matrimonio e al divorzio, al servizio militare e alla conversione, o alla circolazione dei mezzi pubblici di Shabbat. Se altre variabili di carattere sociodemografico e culturale giocano un certo ruolo nel differenziare atteggiamenti e opinioni, la loro influenza sembra assai spesso soverchiata da questa pregiudiziale scelta di campo, che restituisce l’immagine – non nuova ma in questa circostanza particolarmente evidente – di un Paese per molti e profondi aspetti diviso in blocchi separati e dalla scarsa comunicazione reciproca, per il quale la ricerca ed il consolidamento di una posizione il più possibile allargata e comprensiva si pone con grave urgenza. Non è evidentemente possibile analizzare in modo dettagliato la grande quantità di informazioni che la ricerca comprende, ma qualche esempio può risultare significativo. Così, per quanto riguarda la relazione fra vita democratica e Halakha, davanti all’ipotesi di una divergenza fra le due fonti normative, l’89% di chi si riconosce nell’area Hiloni sostiene la prevalenza della prima rispetto alla norma religiosa, laddove l’esatto contrario si registra per i Haredim. La quota proporzionalmente consistente di mancate risposte, che varia anch’essa sensibilmente nei diversi gruppi, mostra inoltre il differenziale di difficoltà che il tema pone all’interno di ciascun gruppo. Con riferimento invece al conflitto palestinese, l’indagine mostra una sensibile divaricazione in ordine a molti temi collegati al problema e al giudizio su possibilità e modalità del raggiungimento di una pace stabile. L’indagine chiedeva agli intervistati di indicare il proprio grado di accordo/disaccordo rispetto all’affermazione “Gli arabi dovrebbero essere espulsi o trasferiti da Israele” (l’opinione poteva essere espressa mediante una gradazione in 4 punti: del tutto d’accordo, d’accordo, in disaccordo, de tutto in disaccordo). Nel complesso gli intervistati si dividono in due gruppi di consistenza quasi uguale, in cui l’accordo raggiunge il 48% e il disaccordo il 46% (il restante 6% non sa, o non risponde). Se in questo caso l’autocollocazione politica mostra una capacita discriminante maggiore che non quella religiosa, gli schieramenti risultano in entrambi i casi molto divaricati. Va osservato che il massimo grado di accordo si riscontra questa volta nel gruppo dei Datim (71%), che supera nettamente i Haredim (59%), indice forse di un atteggiamento complessivo nei confronti dello Stato. Con riferimento invece alle divergenze sui temi della sfera civile, il grafico qui a destra mostra gli andamenti rilevati rispetto a due temi specifici, oggetto di dibattito acceso, ma gli esempi potrebbero essere facilmente moltiplicati. Quanto alla scarsa comunicazione reciproca è forse sufficiente ricordare che ben pochi, in particolare fra Haredim e Hilonim, dichiarano di avere amicizie significative al di fuori delle rispettive cerchie di riferimento, mentre la possibilità di matrimoni incrociati è certamente assai scarsa: il 95% degli Hilonim ed il 93% degli Haredim, rispettivamente, affermano che non vedrebbero favorevolmente il matrimonio di un proprio figlio/a con un partner della parte “avversa”. In questo frammentato contesto è certamente prevedibile il fatto che, per quanto molti elementi concorrano naturalmente alla definizione della propria identità ebraica, i profili che emergono a questo riguardo siano altrettanto nettamente differenziati. Poiché si tratta di un tema che Pagine Ebraiche ha trattato più volte, è interessante soffermarvisi in modo specifico. Agli intervistati è stato chiesto di specificare se il loro essere ebrei fosse prevalentemente una questione di religione (matter of religion) di ascendenza familiare e di cultura (ancestry/culture), o complessivamente di questi tre elementi (religion, and ancestry/culture). Risulta che una identificazione in termini prettamente religiosi riguarda complessivamente il 22% degli intervistati (con oscillazioni che vanno dal 70% per i Haredim al 4% degli Hilonim), mentre l’identificazione soprattutto familiare- culturale è citata dalla maggioranza (55%) degli intervistati (e dall’83% degli Hilonim). La congiunzione dei tre codici è infine citata da circa un quarto degli intervistati (23%). Si tratta di un risultato sostanzialmente convergente con quanto emerso in altre indagini (Italia, 2012; Stati Uniti nel 2013, Regno Unito, 2014). Negli Stati Uniti, in particolare, l’indagine condotta dal Pew Research Center nel 2013 con il medesimo modello di rilevazione, aveva indicato per l’identificazione religiosa un’incidenza pari al 15% intervistati, una più ampia quota di identificazione familiare culturale (62%) e una identica rilevanza (23%) della terza soluzione. In Israele l’identificazione strettamente religiosa è dunque non sorprendentemente più ricorrente di quanto non si riscontri negli altri Paesi, ma anche in questo caso sembra comunque prevalere una auto-rappresentazione identitaria di tipo tendenzialmente antropologico, e a ciò si aggiunge una certa flessione rispetto all’osservanza religiosa. Differenze significative emergono anche per quanto riguarda altre forme di identificazione. Nel complesso il 46% degli intervistati rappresentano se stessi “innanzitutto come ebrei” ed il 35% “innanzitutto come Israeliani”, mentre un quinto del campione rivendica altre immagini di sé o comunque non risponde alla domanda: l’80% degli Hilonim, in ogni caso, preferisce l’identificazione “nazionale”, mentre il 91% degli Haredim quella religiosa. Il rapporto fra religione e sfera civile, i problemi politici, il conflitto palestinese con le connesse questioni internazionali – e in particolare la politica degli Stati Uniti – sono argomenti trattati con molta attenzione dall’indagine, che registra una preoccupazione palpabile da parte degli intervistati, sia pure con una ricorrente diversità di accenti. Evidente è anche la denuncia di un incremento generalizzato dell’antisemitismo, segnalato dal 76% degli intervistati, questa volta senza apprezzabili differenze fra i diversi orientamenti identitari. Una sostanziale unanimità si riscontra infine su un tema cruciale e di importanza non solo simbolica. Nonostante ogni difficoltà, Israele continua ad essere la casa comune: il 98-99% di tutti gli ebrei intervistati – religiosi e no, immigrati o nati nel Paese, giovani e vecchi – ribadisce il diritto di ogni ebreo all’accoglienza e alla cittadinanza in Israele.
Enzo Campelli, Università di Roma La Sapienza, Pagine Ebraiche Aprile 2016