…Cinquecentenario

“La storia non è sempre una passeggiata lungo il viale della memoria”, ha detto Simon Schama al Teatro La Fenice, inquadrando alla perfezione il problema di queste infinite celebrazioni del Ghetto di Venezia. Neppure il Giorno della Memoria tiene testa a questo lungo anno di festa e di buffet. Schama dice chiaro: “Il periodo del Ghetto ci appartiene ora tanto quanto cinquecento anni fa” e “un auto compiacimento collettivo non sembra opportuno, vero? A meno che non si voglia compiacentemente ritenere che ciò che accadde nel 1516 non possa riaccadere oggi”. E infatti, riaccade nei ghetti fisici e mentali altrui, ma anche nei nostri. E riaccade nell’antisemitismo montante in Europa a cui cerchiamo di non porre attenzione distogliendoci con il pensiero di varie altre ingiustizie. Ma ciascuno interpreta le parole di Schama a proprio piacimento. Il Washington Post inervista nostri concittadini veneziani che non vedono nulla di male nel ‘celebrare’ l’evento, anzi, i trecento anni di ghetto. Perché no? E si ritiene utile reinterpretare la segregazione per ricavarne un invito ad aprirsi, che diventa apertura all’assimilazione. La colpa della crisi demografica della Comunità di Venezia (e delle nostre comunità tout court) è attribuita a chi non facilita l’apertura alle unioni cosiddette ‘miste’. Chi non se lo sarebbe aspettato che le ‘celebrazioni’ del ghetto sarebbero finite per approdare anche a questa ripa scoscesa? Come se i migliori esempi di conservazione della tradizione e della cultura ebraica, oggi, fossero rappresentati in primis da chi prende le debite distanze dalla tradizione, dall’annacquamento di valori che si considerano sorpassati; sostituiti, invece, dai valori dello sguardo critico, che l’ebraismo lo osserva dall’esterno, come cosa altra da sé, puro argomento di studio, freddo e scientifico, privato di ricadute emotive, di esperienza familiare vissuta, o di memoria collettiva che, volenti o nolenti, coinvolga anche noi in prima persona.
Ciò che della storia non sappiamo è che cosa sarebbe accaduto se essa si fosse svolta in modo diverso. Che ne sarebbe stato di noi se il Ghetto non ci fosse stato? Quando nel 1797 Napoleone bruciò i portoni della segregazione, l’élite dei facoltosi uscì a respirare aria pura al di fuori del ghetto. Quelle famiglie benestanti, salvo rari casi, si sono perdute nella voglia di uguaglianza e di riconoscimento sociale. Il Ghetto aveva insegnato loro che essere ebrei significava essere cittadini di serie B, soggetti a limitazioni, imposizioni e restrizioni; significava essere segnati a dito dal marchio della diversità, una diversità che non era ancora considerata segno di graziosa e curiosa originalità, di intelligenza e cultura; non era ancora il fascino che tanto ammalia oggi ogni cosa che profumi di ebraismo. Essere ebrei era una vergogna perché la storia e la cultura dell’Occidente lo avevano stabilito, insegnato e divulgato, e il Ghetto lo aveva trasmesso con il suo marchio umiliante. Forse la crisi delle comunità proviene da più lontano che non dagli ostacoli frapposti ai matrimoni misti. Forse proviene da una perdita di consapevolezza di certi valori di cui si sente il peso piuttosto che la fiera proprietà. Siamo ancora fortemente attirati dal fuori del Ghetto, metaforico. Il Ghetto ci ha insegnato a sentire il ‘dentro’ come limitazione anziché come valore in sé. Per qualcuno l’ebraismo stesso è sentito come un ghetto, ristretto, riduttivo, esclusivo.
Forse, anziché un anno di festeggiamenti e occasioni turistiche ci sarebbe voluta una vita di studi e riflessioni, e di confronti.

Dario Calimani, anglista

(5 aprile 2016)