idoli…

Qualsiasi oggetto, idea, parola, sentimento, azione è, indipendentemente dalla sua natura, suscettibile di trasformarsi in idolo. L’idolo non è semplicemente il dio degli altri popoli, tanto più che l’emblema dell’idolatria, il vitello d’oro, è stato costruito dagli stessi ebrei. L’idolo non è semplicemente un’immagine, un pezzo di marmo o di legno a cui ci si prostra. I Maestri del Talmùd ritengono che si è molto più esposti al rischio idolatrico se si è raffinati e istruiti (Sanhedrin, 102 a). Potrebbe essere letto in quest’ottica l’episodio narrato in Vaykrà, 10; 1-3 , della morte dei due figli di Aròn, Nadav e Avihù, dovuta all’aver acceso un “fuoco straniero”, ovvero un fuoco aggiuntivo rispetto a quello prescritto. I due rampolli della più nobile famiglia ebraica, evidentemente sopraffatti dal privilegio di un’innata familiarità con la sacralità, per un eccesso di zelo che diventa esso stesso idolatrico, finiranno loro stessi consumati dal fuoco. A tal punto l’idolatria è concepita nella tradizione ebraica come una relazione alterata, un modo di rapportarsi non autentico, che molti Saggi ci mettono in guardia dal rischio di trasformare in idoli la stessa Torà, le stesse mitzwot e persino la stessa premura anti-idolatrica.

Roberto Della Rocca, rabbino

(5 aprile 2016)