Periscopio – Qui ed ora

lucreziNel mio intervento di mercoledì scorso, dedicato al Documento della Commissione pontificia sui rapporti con l’ebraismo, ho esposto la mia opinione secondo cui nel dialogo ebraico-cristiano i problemi di tipo squisitamente teologico – chi si salva, come e quando – non dovrebbero essere rilevanti, anzi, non dovrebbero essere proprio trattati, mentre di primaria importanza dovrebbero essere considerate le questioni relative ai concreti rapporti umani, al come ci si dovrebbe comportare reciprocamente gli uni con gli altri, qui ed ora: non nel cielo dove, dove, per chi ci crede, potremo un giorno andare, forse, tutti insieme, ma su questa misera terra che siamo oggi chiamati, gli uni accanto agli altri, ad abitare. E, se la Chiesa vuole davvero impegnarsi a dare sostanza al un nuovo corso di rispetto e amicizia tra cristiani ed ebrei, andando al di là delle – pur importanti – parole sulle comuni radici e sulle parallele o convergenti missioni storiche e spirituali, credo che un terreno importante – secondo me, il più importante – su cui tali buone intenzioni potrebbero essere verificate e messe in pratica è quello dell’atteggiamento da assumere nei confronti dello Stato di Israele: quella piccola patria che, com’è ben noto, dell’identità ebraica, comunque intesa – religiosamente o laicamente – rappresenta un elemento assolutamente centrale e imprescindibile. E l’importanza di questo punto è data soprattutto dal fatto che mai, come su questo piano, è possibile registrare con estrema chiarezza un mutamento radicale – un vero e proprio capovolgimento – della posizione della Chiesa nei confronti dell’ebraismo, giacché non va dimenticato che l’atteggiamento di netta chiusura a lungo avuto nei confronti del sionismo e poi di Israele ha avuto a lungo un’esplicita motivazione teologica: la risposta ufficiale che Theodor Herzl ricevette dal Vaticano fu, com’è noto, che, finché gli ebrei non avessero riconosciuto Gesù, la Chiesa non avrebbe potuto riconoscere le loro aspirazioni nazionali.
Oggi, per fortuna, non è più così, ma ciò non significa che non ci si debba interrogare, da una parte, sulle ragioni dell’enorme ritardo nel riconoscimento politico e diplomatico di Israele da parte della Santa Sede (avvenuto solo nel 1993, ben 45 anni dopo la fondazione dello Stato), e, dall’altra, sulla persistente freddezza del Vaticano nei confronti dello Stato ebraico. Che queste ragioni debbano essere tenute in considerazione contestualmente a quelle degli altri Paesi e popoli dell’area, è giusto e ovvio, ma che Israele abbia sempre solo doveri e responsabilità, mentre tutti gli altri hanno solo diritti e aspettative, lo è un po’ meno. Eppure, molto spesso è proprio questa la sensazione che si ricava dagli atteggiamenti e le pronunce del Vaticano (per non parlare delle autorità ecclesiastiche in Terra Santa, che, nei confronti delle tensioni nell’area, mostrano costantemente una posizione che solo eufemisticamente si può definire parziale e sbilanciata). Per fare solo un recente esempio, nel recente messaggio pasquale Urbi et Orbi pronunciato dalla basilica di San Pietro, il papa ha voluto esprimere la sua “vicinanza alle vittime del terrorismo, forma cieca ed efferata di violenza che non cessa di spargere sangue innocente in diverse parti del mondo, come è avvenuto nei recenti attentati in Belgio, Turchia, Nigeria, Ciad, Camerun e Costa d’Avorio”. Un elenco molto preciso e dettagliato, come si vede, nel quale spicca una clamorosa lacuna, relativa a un Paese che non solo era stato colpito da sanguinosi attentati proprio nei giorni immediatamente precedenti al discorso, ma che forse è l’unico posto al mondo nel quale la parola “terrorismo” non può mai essere dimenticata, neanche un solo giorno, un solo minuto. Un’omissione che addolora. Personalmente, preferirei che il papa dicesse che gli ebrei, nell’altro mondo, non si salveranno, ma che la loro vita, su questa terra, è comunque sacra, al pari di quella di tutti gli altri uomini.
Nel citato Documento, a proposito dello Stato di Israele, si afferma che i giudizi su di esso e le sue opzioni politiche “vanno visti in un’ottica che non sia di per sé religiosa, ma che si richiama i principi comuni del diritto internazionale”. Di fronte a una simile affermazione (che, ripetiamo, rappresenta un completo ribaltamento di quella che è stata per decenni la posizione ufficiale della Chiesa, fondata su un rifiuto di tipo, appunto, religioso), ci sarebbe da dire una sola parola: “magari!”. Magari Israele fosse giudicato, dalla Chiesa e da tutti gli altri, secondo “i principi comuni del diritto internazionale”! Secondo quelle norme che, come si legge nelle aule dei tribunali, dovrebbero essere uguali per tutti, secondo le quali tutti, uomini e stati, hanno pari diritti e doveri, uguali responsabilità e aspettative, e per le quali l’uccisione di civili innocenti è sempre e comunque un crimine, non solo in Belgio, Turchia, Nigeria, Ciad, Camerun o Costa d’Avorio.

Francesco Lucrezi, storico

(6 aprile 2016)