Una lacuna che è stata colmata

rav di segni mediaQualche anno fa la professoressa Clelia Piperno venne da me dicendo: ho un’idea, traduciamo il Talmud in italiano. Le risposi sorridendo se avesse la minima idea delle risorse necessarie in termini umani ed economici. Mi disse: non ti preoccupare ci penso io. Le dissi allora sì, ok, tanto ero sicuro che le risorse non le avrebbe trovate. Ora siamo qui.
Signor Presidente, autorità, amici
La prestigiosa sede che accoglie questa presentazione è degna dell’evento che celebriamo. Ma il caso, se di caso si tratta, ha voluto che questo luogo sia a poca distanza da altri due luoghi che nella storia del Talmud hanno avuto una grande importanza. Lungo il corso del fiume, qui a Trastevere, vicino alla piazza in Piscinula, si collocò il primo insediamento ebraico romano, di cui rimane ancora una Sinagoga in vicolo dell’Atleta. Ed era qui che nell’undicesimo secolo un illustre membro della famiglia Anav, rabbì Natan ben Yechiel (1035-1106) compilò il primo dizionario della lingua talmudica, l’Arùkh, mettendo a disposizione degli studiosi uno strumento che ancora oggi è utile nella quotidianità di chi cerca di comprendere il Talmud, oltre ad essere una miniera di importanti informazioni. Perché una tale opera potesse essere compilata non bastava il grande studioso, ma ci voleva una corte di persone colte dotate degli strumenti di lavoro, allora manoscritti, preziosi e di difficile reperibilità. Tale era la Roma ebraica di mille anni fa. L’altro sito a pochi passi da qui è Campo de’ Fiori, per molto tempo sede di esecuzioni pubbliche dimostrative. Come è stato già detto in quella piazza che nel 1553 tutti i libri di Talmud furono bruciati in un pubblico rogo, e da quel momento fu proibito lo studio del Talmud e ogni sua copia circolante fu confiscata per essere distrutta. Quel giorno era Rosh haShanà, il Capodanno ebraico, la stessa ricorrenza alla quale è dedicato il primo trattato talmudico che traduciamo in italiano. Questi due eventi lontani nel tempo ma vicini nello spazio, sono una testimonianza dell’importanza e della centralità del Talmud nella vita ebraica italiana e dell’interesse del mondo esterno nei suoi confronti, purtroppo – nella maggior parte dei casi- nefasto e persecutorio. Il Talmud, nelle due versioni esistenti, è stato compilato nella terra d’Israele e in Babilonia; questa seconda versione, sviluppata in un periodo storico di relativa stabilità per il popolo ebraico, si è potuta affinare e perfezionare, per diventare la chiave di comprensione di tutta la tradizione rabbinica, la sua Bibbia orale. Come tale, ovunque risiedano degli ebrei, lo studio del Talmud è parte essenziale e integrante della formazione religiosa, culturale, morale e intellettuale. Ma il Talmud è un testo molto difficile, per la lingua e la struttura fatta apposta per affinare l’intelletto e lo spirito critico. Così accanto agli studiosi si sono moltiplicati gli interpreti, i divulgatori e i diffusori. In questo processo l’Italia ha avuto un ruolo decisivo in molti momenti della storia. Abbiamo detto di rabbì Natan, ma prima e dopo di lui vi sono stati cultori della materia, dai semplici copisti, che neppure tanto semplici dovevano essere, ai maestri e ai commentatori. Decisiva in questa storia è stata l’invenzione della stampa, proprio qui a Roma viene stampato il primo libro ebraico, ed è in Italia che il Talmud viene finalmente stampato per intero. L’impresa completa, dopo i tentativi dei Soncino, avviene a Venezia, poco dopo l’istituzione del Ghetto di cui appena ora abbiamo ricordato il quinto centenario. I tipografi italiani hanno inventato la veste tipografica del Talmud, e da allora ogni edizione ne deve ricalcare quella struttura originaria e la divisione in fogli e colonne. La stampa stimolò ulteriore produzione culturale, e fu proprio un altro italiano, Yeoshua Boaz le veth Barukh, cioè Salvatore Boniforte de’ Benedetti , a corredare le edizioni con un apparato di rimandi alle citazioni bibliche, ai paralleli talmudici e alle opere di codificazione della legge. Ma la grande diffusione non sfuggì agli occhi inquisitori, che in realtà mai avevano perso di vista quest’opera; già tre secoli prima a Parigi c’era stato un rogo di manoscritti, ora toccò a Roma per le edizioni stampate. Le accuse contro il Talmud erano dei pretesti; si capiva che se si voleva colpire la cultura e l’indipendenza ebraica bisognava colpire al cuore, e il cuore era il Talmud. La persecuzione di questo testo in Italia è stata aggirata dagli ebrei con tutti i possibili espedienti, ma avuto un effetto micidiale nell’abbassare il livello culturale e religioso delle nostre comunità. La strada che abbiamo intrapreso ora con questa ambiziosa operazione ha per tutti questi motivi un grande valore simbolico. Secoli fa sarebbe stato impensabile tradurre un testo così complesso nelle lingue europee; cambiando il mondo e gli strumenti a disposizione, a questo ci si è dedicati nel secolo scorso, con prodotti sempre più raffinati, tanto che anche negli ambienti più rigorosi la traduzione è considerata come un valido strumento di approccio al testo. L’Italia mancava all’appello, per tanti motivi, dalla relativa ridotta consistenza della sua comunità ebraica e alla mancanza di conoscenza di questo patrimonio sia in campo ebraico che non ebraico. Pensare e lavorare a quest’opera significa tante cose: Che ora, di nuovo, c’è un gruppo di studiosi di Talmud che parlano la lingua italiana e che possono realizzare questo obiettivo; che esiste un’attesa da parte del pubblico, non solo ebraico; che esiste un genuino interesse da parte delle istituzioni dello Stato italiano a promuovere e coltivare questi studi, come parte non trascurabile di un patrimonio universale ma con specificità italiane; che l’incontro con un mondo culturale diverso ma interno non spaventa ma al contrario attira l’attenzione; che dopo le persecuzioni dei secoli scorsi e la tragedia della shoà si comprende che queste pagine fanno parte della storia italiana e sono necessarie alla crescita della sua società che deve essere aperta al confronto. E rivolgendomi al presidente della Repubblica vorrei sottolineare un altro dato: all’inizio solenne del Suo mandato, nel discorso al Parlamento, Ella ha voluto ricordare un bambino ebreo italiano vittima del terrorismo e dell’odio antiebraico; oggi Lei continua questo percorso di attenzione all’ebraismo partecipando ad un evento in cui si parla di ebraismo non come di un corpo al quale sono stati inferti colpi mortali, ma di un mondo vivo portatore di una grande cultura necessaria alla società. Grazie dunque signor presidente per la sua presenza in questo momento, che rappresenta per tutti la volontà istituzionale di recupero e di crescita.

Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

(6 aprile 2016)