Il SettimanAle
Madre d’Israele
Nata a Lodz, in Polonia, da una madre sopravvissuta ai campi di sterminio e da un padre che aveva perso l’intera famiglia nella Shoah, Sheffi Paz è arrivata in Israele a 4 anni, passando per il ‘campo di transito’ di Kiryat Ata. Poco più che ventenne, era fra i militanti pacifisti che cercavano di ostacolare l’insediamento di un nucleo di coloni ebrei religiosi nella zona di Nablus. Attivista poi del partito Meretz, si è spesa negli anni soprattutto a favore dei diritti degli omosessuali e dei transgender. Un impegno civile in sintonia con il suo personaggio di madre lesbica, ashkenazita, atea radicale, telavivina; orgogliosa che il figlio abbia chiesto che sulla propria carta d’identità venisse scritto due volte: nome della madre. Un impegno che però si è trovato a navigare correnti sconosciute quando con la compagna Tali, negli anni ’90, si è trasferita in un loft del quartiere Shapira a sud di Tel Aviv. Dove anni dopo, a sovrapporsi ad altri strati di residenti disagiati, ebrei orientali, religiosi e non, collaborazionisti palestinesi risistemati lì dallo Shin Beth, ebrei etiopi, lavoratori asiatici rimasti dopo la scadenza del visto, sono stati scaricate decine di migliaia di rifugiati africani, soprattutto eritrei e sudanesi, giunti spesso dopo esperienze atroci subite ad opera dei trafficanti di profughi. E’ allora che Sheffi ha compiuto un’ampia virata. Provando inizialmente a mediare fra le NGO di sinistra, che venivano a cercare di difendere gli africani, e gli estremisti di destra del partito Kach, che sobillavano i residenti accusando gli africani di ogni sorta di crimine, Sheffi si è sentita progressivamente di condividere la rabbia dei vecchi residenti, e da mediatrice è diventata prima alternativa moderata ai capi squadristi della destra, per poi perdere ogni velatura di moderazione. Adesso è una dei leader che chiedono a gran voce la deportazione immediata dei cinquantamila eritrei e sudanesi, colpevoli di infinite turpitudini fra cui, dicono, orinare per la strada. “Non predichiamo la violenza”, sostiene, ma non è chiaro se lo sappiano anche i poveri rifugiati che va a terrorizzare con le sue ronde notturne in maglietta nera, con su scritto Fronte di Liberazione di Tel Aviv Sud, “di cui siamo l’ala militare”, scherza. Racconta la storia di Sheffi Paz in un articolo-intervista Hilo Glazer, su Ha’aretz dell’8 aprile (full disclosure: Glazer scrive soprattutto di omosessuali, incluso il resoconto del proprio matrimonio a New York con persona dello stesso sesso, l’estate scorsa, e non nasconde la sua simpatia per l’originaria matrice libertaria della militanza di Sheffi).
E’ una storia un po’ forte. I tasti del mio laptop mi chiedono di bilanciarla citando almeno brevemente quella di una non-madre, non ebrea, che invece ai rifugiati eritrei di Tel Aviv Sud si è dedicata anima e corpo con la generosità dei suoi vent’anni. Tornata a New York per un Master in diritti umani alla Columbia, Sara Robinson aveva prima lavorato, con Amnesty International ed altre NGO, al Centro Sociale delle donne eritree di Tel Aviv, una struttura largamente autogestita, ma che Sara ed altre volontarie hanno aiutato, fra l’altro anche ad ottenere un piccolo ma vitale contributo di una fondazione italiana. Un micro-elemento: per rendicontare minuziosamente il contributo, Sara è riuscita a raccogliere, stando a New York, oltre cento biglietti dell’autobus utilizzati dalle donne eritree per recarsi al loro centro, a lezione di internet. Si può leggere qualcosa del lavoro di Sara, e in generale delle condizioni dei rifugiati eritrei in Israele, sul sito web The Eritrean Exodus.
Alessandro Treves, neuroscienziato
(10 aprile 2016)