“Volevo la libertà, l’ho trovata a Tel Aviv”
Ci sono luoghi nei quali tutti sembrano più belli e più sereni, e il bianchissimo spazio di fronte al teatro HaBima a Tel Aviv è uno di questi. La luce è radente, il rettangolo di acqua quieta guarda verso il giardino di fiori, anche lui quadrato, in cui suona sempre musica classica o jazz, e placido è il movimento delle persone che entrano o escono da teatro o da un concerto, e si fermano a parlare o a bere qualcosa nei caffè lungo il perimetro della piazza. Payam Feili dovrebbe viverci, in questa piazza. La sua personalità, la sua calma interiore e il suo aspetto curato riflettono la perfezione della fontana orizzontale e dello spazio intorno. Un rifugiato, nelle immagini che tutti abbiamo davanti in questo inizio di millennio fatto di migrazioni, è qualcuno che anche dopo aver ripreso una apparenza ordinata avendo ricevuto cibo, permesso di soggiorno temporaneo e vestiti puliti, spesso mantiene tutta l’urgenza della sua fuga in un luogo definito: negli occhi. Raramente guarda diritto in faccia: preferisce tenere gli occhi bassi, attenti al lavoro che sta facendo, e risponde a monosillabi. Payam Feili di mestiere fa lo scrittore e non è quel genere di rifugiato. Alto e sottile, l’incarnato leggermente olivastro, i capelli lisci in perfetto equilibrio fra sale e pepe, elegante per natura nell’abbigliamento semplice, ma di qualità. Ha una stella di Davide netta tatuata sul collo, sotto l’orecchio destro. Guarda diritto negli occhi, gesticola con moderazione, e quando meno ce lo si aspetta sorride, un sorriso bianco e pieno ma modesto, senza la chutzpa di quello che ce l’ha fatta. Eppure, si può proprio dire che ce l’abbia fatta. È riuscito a far pubblicare un suo libro in Iran, in pieno regime islamico, nonostante i temi apertamente omosessuali che tratta. È riuscito a superare un certo numero di arresti. È riuscito ad arrivare prima in Turchia e da lì in Israele, il luogo nel quale ha da sempre voluto vivere. È riuscito ad ottenere un visto di residenza temporaneo facendo appello al ministro della Cultura e al ministro degli Interni. In interviste precedenti ha tratteggiato, senza troppo entrare nei dettagli, il clima di oppressione nel quale ha vissuto fino a pochi mesi fa: la sua doppia infedeltà di intellettuale omosessuale che apertamente ammira Israele ha causato ricorrenti licenziamenti suoi e di suoi famigliari, e almeno tre suoi arresti negli anni dopo la pubblicazione del suo primo libro nel 2005. I suoi libri di poesia successivi sono stati pubblicati in lingua originale, in inglese e in altre lingue, ma fuori dall’Iran.
Che vita fai da quando sei in Israele?
Mi sveglio in tarda mattinata e scrivo per diverse ore. Poi incontro amici e la sera talvolta incontro giornalisti. Ogni giorno parlo a lungo con la mia famiglia in Iran attraverso skype.
Solo con la famiglia? Gli amici di tutta la prima parte della tua vita non li senti?
No, parlo solo con familiari. Non sono una persona popolare in Iran, e gli amici e colleghi si sono allontanati, negli ultimi dieci anni, dopo la pubblicazione del primo libro. La gente non vuole entrare in contatto con me ed esporsi così a problemi con il regime. Non c’è la sicurezza necessaria. Ma il salto è stato dopo il 2010, con la pubblicazione del romanzo a Berlino: a quel punto si è fatto il vuoto intorno. Ero ancora in Iran, ma mano a mano che diventavo conosciuto all’estero, nel mio paese ero lasciato solo. Solo la mia famiglia mi è sempre rimasta vicina.
Tu sei nato dopo che Iran e Israele erano già diventati nemici. Ma hai detto in diverse occasioni che hai sempre voluto vivere in Israele. Come conoscevi abbastanza bene Israele per prendere una tale decisione da lontano?
È stata una decisione personale, che ha a che fare con me come persona e non ha alcun rapporto con il livello nazionale o internazionale, con i rapporti fra Stati. Ho scelto di guardare Israele con i miei occhi e non attraverso la propaganda in Iran. Ascoltavo le notizie da lì, è vero, e non potevo certo vedere il paese come è davvero, ma non ho lasciato che la negatività delle informazioni che mi arrivavano mi offuscasse lo sguardo. Ho studiato la storia ebraica prima, poi quella di Israele, ma soprattutto sono andato alla fonte, leggendo la Torah in persiano. Questo già quando ero adolescente, dopo aver visto un film sulla Shoah. È stato quello a far scattare la molla e a farmi desiderare di imparare di più.
Dunque hai imparato molto su Israele in teoria, ma ora se qui. Quanto è diversa da come l’hai immaginata?
L’unica cosa che non sapevo è il modo in cui le persone entrano in contatto diretto le une con le altre. Il modo in cui a ognuno importa degli altri. Poi naturalmente non conoscevo nulla della cultura locale. E Israele a vederla da dentro è in effetti esteticamente molto più bella di quando potessi aspettarmi. Non ho avuto delusioni, salvo forse qualche attacco da parte di persone molto politicizzate che criticano il fatto che io sia venuto qui (intellettuali da un lato della sfera politica hanno accusato i rappresentanti del governo di fare un uso strumentale di Payam, che in quanto iraniano sarebbe usato come un trofeo, nda). Ma il quoziente di affetto e di apprezzamento che ricevo supera di gran lunga queste manifestazioni di persone estremiste, che sono minoritarie sia come numero che come impatto su di me. Li lascio dire, passo oltre.
Lasciando l’Iran hai avuto anche la possibilità di entrare negli Stati Uniti.
È vero, ma io ho bisogno di Medio Oriente. Non solo per ragioni geografiche o culturali. La scelta di Israele è anche politica. Voglio vivere in Medio Oriente e in una democrazia, e non ce ne sono altre. Israele è l’unico paese in cui la democrazia è stabile. Basta guardare cosa è successo in Afghanistan e in Iraq, dove anche con le guerre e l’entrata degli americani non si è riusciti a costruire una democrazia. Il pensiero mediorientale è lontano dalla democrazia, per natura. Ma in Israele, anche per il fatto che è una società composita, la democrazia tiene. Le persone qui sono abituate a confrontarsi con chi pensa in modo diverso.
Nel calendario ebraico siamo adesso fra Purim e Pesach. Fra mancanza di libertà e la conquista della libertà. Arrivando in Israele hai raggiunto un grado di libertà che prima non avevi. Cosa intendi farne?
Il passaggio è in effetti simile a quello che è accaduto nella mia vita negli ultimi due anni, ma la verità è che io mi sono sempre sentito una persona libera, dentro. L’oppressione esterna della mia libertà non ha mai inciso sulla mia consapevolezza di essere libero. Oggi in Israele, continuo la mia vita e la mia produzione. Scrivo, cerco di veicolare in quanto scrivo le difficoltà e sventure dei cittadini iraniani, cerco di essere io la loro voce che viene strozzata dal regime. Dall’altra parte, non voglio però essere qualcuno che parla tutto il tempo di queste difficoltà, voglio poter mantenere la mia positività di scrittore, la mia creatività. È un equilibrio difficile. Ma voglio che chi sente il mio nome lo associ al mio essere poeta. Non solo alla tragedia di un popolo. Per quanto io mi senta responsabile per il mio popolo, sono anche responsabile per la mia scrittura, e devo elevarmi per quanto possibile dalla cronaca e dalla politica. In qualche modo, vivo una vita doppia, a due livelli: quello del rifugiato e quello del poeta. So anche che è anche una questione di tempo. Quando il rumore causato dalla mia scelta di vivere in Israele si sarà calmato, le persone si abitueranno ad apprezzarmi per quello che scrivo, e non a guardarmi continuamente come il poeta omosessuale che ammira Israele e che per questo ha lasciato il suo paese. Devo solo dare tempo al tempo.
Tutto ciò può succedere qui, se riceverai il visto…
Si, ma quando, non se. Ho un avvocato che si sta occupando del mio appello. Fino ad ottobre 2016 posso risiedere in Israele grazie al visto temporaneo ottenuto grazie all’interessamento di Ido Dagan. Quando ero già in Turchia, dopo che il mio ultimo libro I will grow, I will bear fruit …figs è stato pubblicato in ebraico, Ido Dagan, un giornalista israeliano, ha chiesto di intervistarmi. Dopo quella intervista, Ido è diventato una figura simile a un agente che lavora pro bono: mi ha aiutato a fare richiesta per il visto temporaneo e con lui decidiamo le interviste da concedere, le persone da incontrare. L’avvocato ha avviato la richiesta di residenza, e sono sicuro che avremo successo.
Intanto, il tuo ultimo romanzo uscirà in inglese. Ma stai anche scrivendo: poesie, o un altro romanzo?
Non ho ancora scelto l’editore, ma la traduzione è completa, e il libro uscirà in inglese fra pochi mesi. E sì, sto scrivendo il prossimo romanzo, che sarà pubblicato presto in Israele. Parla di artisti che lavorano in un circo, che attraversano la Seconda guerra mondiale e la Shoah. Come il precedente, è un’opera di fantasia, con personaggi che richiamano personaggi della Bibbia e della storia del popolo ebraico.
Payam Feili e la sua stella di Davide sono già una piccola celebrità a Tel Aviv. La serenità che infonde è la sua arma più potente, e sbaglia di grosso chi la confonde con fragilità.
Daniela Fubini, Pagine Ebraiche Aprile 2016
(Disegno di Giorgio Albertini)