Un presente
che non passa
Il rapporto con il proprio passato nazionale non è mai lineare. Vuoi perché la sua rielaborazione è vincolata alle stagioni culturali e politiche che si succedono nel corso del tempo, vuoi perché raccontare (e raccontarsi) la propria storia risponde ad esigenze del presente, ovvero all’agenda delle priorità che si impongono di volta in volta. L’una e l’altra cosa non costituiscono gli unici ed esclusivi filtri nella definizione dei caratteri identitari prevalenti in una collettività. Tuttavia, vi esercitano una forte pressione, una cogenza ineludibile, che piaccia o meno. La Polonia del giovane presidente Andrzej Duda, già esponente del partito conservatore Diritto e Giustizia, e della premier Beata Maria Szydło, proveniente dalla medesima formazione politica, ne è un esempio. Diritto e Giustizia, in polacco “Prawo i Sprawiedliwość”, comunemente abbreviato in PiS, nasce nel 2001, per ispirazione dei gemelli Lech e Jarosław Kaczyński, grazie all’unione di un paio di gruppi che gli preesistevamo, ossia una parte dell’Azione elettorale Solidarność con il partito Accordo di centro. Attualmente il PiS nel Parlamento dell’Unione è parte del gruppo dei Conservatori e riformisti europei mentre a livello continentale aderisce all’Alleanza dei conservatori e riformisti europei. Si tratta di una famiglia politica ispirata al liberismo economico, ad un diffuso conservatorismo in campo sociale e nei riguardi dei diritti civili, all’euroscetticismo e al sovranismo nazionale. Liquidare queste posizioni come “populiste” è, oramai, una scorciatoia di basso profilo, poiché si tratta di una definizione talmente così ampia e inflazionata da non chiarire quasi più nulla. Dopo di che, la nazione che il PiS ha ereditato politicamente è uno dei paesi dell’Europa orientale che più ha cercato di fare i conti con i trascorsi dell’occupazione tedesca. Se fino all’esistenza del regime comunista qualsiasi ragionamento in merito era stato comunque vincolato dall’asfissiante catechismo ideologico dettato dagli interessi delle élite comuniste al potere, con l’inizio degli anni Novanta si sono aperti varchi fruttuosi nella riflessione legata ai sei terribili anni di controllo nazista. La Polonia, peraltro, come ben si sa aveva pagato pegno al predominio moscovita una prima volta (tra il settembre del 1939 e il giugno del 1941, con la sua spartizione territoriale tra nazisti e sovietici) del pari ad una seconda, con il ritorno delle truppe russe (nell’estate del 1944). Tutto il discorso sullo sterminio sistematico della componente ebraica del Paese, portato a termine dai solerti e zelanti esecutori provenienti dalla Germania, precedentemente al crollo del muro di Berlino era quindi rimasto completamente assorbito dalla vulgata antifascista di Stato. Le specificità di quegli eventi, ovvero di un genocidio razziale senza pari nella storia contemporanea, si erano così stemperate dentro le logiche ferree della ragione politica dominante. Dopo di che la carica libertaria che ha attraversato gli anni Ottanta, fino alla caduta del regime, per poi rinnovarsi successivamente, si è anche riprodotta nei ripetuti e inesausti tentativi di interrogarsi sugli intrecci tra la devastante occupazione nazista, la nutrita resistenza polacca, l’atteggiamento della popolazione civile e i coni d’ombra, così come le zone di luce, nel merito di quel passato. Il dibattito, alimentato tra l’altro da alcune componenti del composito e vivacissimo movimento Solidarność, ha quindi preso vigore e sostanza, mantenendosi nel corso del tempo. A tale riguardo. i polacchi hanno sempre rifiutato il rimando ai “campi di sterminio polacchi”, mettendo in rilievo come le installazioni della morte sul territorio del loro Paese fossero una creazione esclusivamente tedesca. Quando il presidente americano Barack Obama, nel 2012, durante un discorso ufficiale, usò inavvertitamente tale espressione, dovette affrontare le ire del governo di Varsavia, porgendo infine le sue scuse. Nella dizione ufficiale, quindi, si parla perlopiù di “campi nazisti della morte istituiti nei territori delle Polonia occupata”. A fronte dell’assassinio sistematico di tre milioni di ebrei polacchi viene ricordato che un numero altrettanto considerevole di polacchi non ebrei fu uccisa durante l’occupazione tedesca. Non tutti nei campi, va però precisato. Peraltro Maciej Świrski, dell’Anti-Defamation League polacca, ha ricordato come l’incauta ed immediata sovrapposizione tra la collocazione geografica e spaziale dei luoghi di sterminio e la loro ideazione, realizzazione e gestione possa costituire una forma, ancorché non necessariamente intenzionale, di “negazionismo” o, comunque, di relativizzazione delle responsabilità del nazismo. Se i primi stavano in Polonia, le menti ideatrici e gli esecutori venivano da Ovest. La percezione di essere identificati non come vittime bensì come potenziali collaboratori dell’occupante è comunque, a tutt’oggi, ancora un elemento che entra di peso nella discussione sulla natura e le radici del recente passato polacco. La tutela del “buon nome della Polonia” si incrocia con la frustrazione (un sentimento complesso e composito) che i polacchi, quanto meno ancora una parte d’essi, avvertono riguardo alla preservazione, come alla comprensione per parte altrui, della propria identità nazionale. Tanto più dal momento che il Paese è parte costitutiva dell’Unione europea. Un peso molto forte, nella definizione dei caratteri polacchi, è dato dal giudizio formulato sulla condotta negli anni dell’occupazione nazista, quindi nel confronto competitivo tra l’opposizione clandestina nazionalista costituita dall’Armia Krajowa (il braccio armato dello “Stato segreto polacco”) e quella di stampo comunista, raccolta intorno all’Armia Ludowa (l’”esercito popolare”, legato all’Unione Sovietica e controllato dal Partito operaio polacco), insieme al capitolo della collaborazione con la resistenza ebraica, composta perlopiù dal revisionista Żydowski Związek Walki (l’”Unione combattente ebraica”) e dalla Żydowska Organizacja Bojowa (l”Organizzazione ebraica di combattimento”), quest’ultima di impostazione sionista e di sinistra. Parrebbero essere in fondo questioni vecchie, a tratti – forse – quasi anacronistiche, da affidare in ultima istanza al giudizio degli storici di professione. Ma si innervano dentro ferite per più aspetti ancora aperte, dove entrano in gioco un insieme di fattori di moltiplicazione di tensioni non sempre risolte. Tra di esse quelle riguardanti l’identità collettiva; il rapporto tra componenti ebraiche e non della popolazione nazionale, soprattutto prima (e durante) la Shoah; il ruolo del cattolicesimo sul piano della cultura politica odierna; la comparazione tra l’occupazione tedesca e quella sovietica; il giudizio sulle condotte assunte non solo negli anni del dominio nazista ma anche durante il regime comunista; il modo di intendere i processi di liberalizzazione che, dagli anni Ottanta, hanno coinvolto l’intera nazione, per arrivare infine ad oggi. Va da sé che, in questo quadro, la “questione ebraica” rimanga un indice di riferimento per valutare un complesso di fattori di ordine non solo politico ma anche riguardanti la cultura nazionale. Nel febbraio di quest’anno il giovanissimo ministro della Giustizia Patryk Jaki, esponente del partito di destra Solidarna Polska (“Polonia solidale”), ha avanzato la proposta di punire fino a tre anni di detenzione chiunque dovesse ancora fare ricorso all’aborrita espressione “campi polacchi della morte”. In parole povere: all’interno di un dispositivo legale e legislativo che si presenta come perseguimento penalistico delle manifestazioni negazioniste o “riduzioniste”, ogni riferimento inapprorpiato verrebbe sottoposto all’immediato vaglio dei tribunali. Su questa lunghezza d’onda, dove sembra predominare il bisogno di scrivere la storia con le sentenze, insieme all’insistito rimando al bisogno di una narrazione storica ufficiale che sia intesa da tutti come indubitabile, si è inserita la minaccia, formulata dallo stesso capo dello Stato Duda, di revocare a Jan Gross, docente alla Princeton University, il conferimento dell’ordine al merito delle Repubblica, ambita onoreficenza polacca. La colpa dello studioso parrebbe essere quella di avere in qualche modo “enfatizzato” il numero dei morti ebrei in Polonia, mettendo in secondo piano quello dei polacchi non ebrei. Lo stessa uscita, nel 2013, del film “Ida”, per la regia di Pawel Pawlikowski, si è accompagnata, dopo la sua proiezione sui canali della televisione pubblica nazionale, non solo ad una accesa discussione ma anche a critiche di taglio fortemente nazionalista. La colpa della pellicola, anche in questo caso, sarebbe quella di concorrere a mettere in discussione l’immagine esclusiva dei polacchi in quanto vittime dell’occupazione, adombrando o rievocando compromissioni con i tedeschi di una parte di essi. L’intera questione dei rapporti con un passato così doloroso, evidentemente in sé ancora irrisolta, si intreccia alle immagini del presente che le autorità coltivano. Il partito Diritto e Giustizia ha da tempo aperto una dura polemica nei confronti dell’Unione europea, quest’ultima accusata di dirigismo insieme ad una visione al medesimo tempo tecnocratica ed ispirata ad un liberarismo cosmopolita che minaccerebbe i caratteri nazionali, non solo quelli polacchi. Se i precedenti governi di Donald Tusk ed Ewa Kopacz, sconfitti poi alle urne nell’ottobre del 2015, insieme alla maggioranza politica che li sosteneva, avevano enfatizzato i successi economici del Paese dal 1989 in poi, l’attuale leadership sembra invece impegnata a giocare le carte del risentimento e della rivalsa antieuropea, di fatto adoperandosi sia per minimizzare l’importanza delle trasformazioni introdotte dopo il crollo del comunismo sia, soprattutto, per limitare l’evoluzione liberaldemocratica delle istituzioni compiuta in più di venticinque anni dalla caduta del regime. Va detto che l’elettorato del partito di Jarosław Kaczyński ha un profilo fortemente conservatore. Spesso guarda con profonda diffidenza al “progressismo” dei connazionali che risiedono nei grandi centri urbani come Varsavia, Cracovia, Lodz, Gdańsk (meglio conosciuta con il nome tedesco di Danzica), Poznan e così via. La proposta di legge avanzata da Patryk Jaki fa appello al senso di vittimismo che una consistente componente degli elettori del PiS nutre verso la propria condizione presente, imputando agli “stranieri” la colpa delle difficoltà in cui versa. I leader del partito non sono antisemiti, nutrendo peraltro anche una buona disposizione d’animo nei confronti d’Israele. Nel marzo di quest’anno Andrzej Duda si è speso pubblicamente contro l’antisemitismo, in occasione dell’inaugurazione di un museo che commemora l’impegno polacco nel salvataggio dei connazionali ebrei durante l’occupazione nazista. Tuttavia, questa condotta sembra presentare i caratteri dell’ambivalenza. Se da una parte cerca di riformulare il passato, incorporando gli ebrei dentro il discorso nazionale (e quello nazionalista), dall’altro lo fa in maniera contraddittoria, sancendo lo statuto di vittime assolute non solo dei primi ma anche dei connazionali non ebrei. Gli uni e gli altri vengono messi ossessivamente sullo stesso piano. Qualsiasi discorso che rimandi alle zone grigie di compromissione, che furono peraltro ben presenti in tutti i regimi di occupazione, rischia quindi di essere criminalizzato come una sorta di operazione “antinazionale”. Non di meno, così facendo, l’attuale classe dirigente polacca più che nutrire un autentico interesse per la comprensione delle dinamiche storiche nel rapporto tra ebrei e non ebrei nel proprio Paese, parrebbe invece essere orientata ad incentivare letture ed interpretazioni del passato ispirate ad una retorica inutilmente quietistica e unitaria, laddove le discontinuità che hanno caratterizzato il tempo che fu vengono sciolte in un abbraccio che, nel tentativo di livellare le differenze, rischia di alimentare antiche diffidenze. Non è un caso, infatti, che i pregiudizi nei confronti degli ebrei siano ben lontani dall’essersi risolti, soprattutto tra quegli elettori che si rifanno ad una matrice identitaria fortemente innervata nel tradizionalismo culturale, civile e sociale che permane nel Paese. Di questa irrisolta duplicità, le attuali leadership politiche sono un’espressione forte, marcata, rivolta ad orientare non solo il dibattito in corso ma anche i suoi futuri sviluppi. Il rimando allo strumento penale, quindi, più che essere uno strumento di difesa rischia di rivelarsi ancora una volta indice di una pesante intromissione autoritaria nella formazione di una coscienza collettiva, dove l’imposizione si sposa da subito con la costrizione ad una sorta di dire (e pensare) obbligato perché sancito da un’autorità pubblica.
Claudio Vercelli
(17 aprile 2016)