…Pesach

Intanto i sapori, così contraddittori. Il Kharòseth, questa strana marmellata di frutta secca e altre componenti per me misteriose, dall’aspetto esteriore decisamente poco invitante, ma buono di una bontà indicibile. Buono perché lo faceva la nonna, e come lei nessun altro, nelle memorie di ogni bambino. Inopportuno, perché sapore dolce insieme all’insalata, gustato prima della cena, nel bel mezzo della lettura cantata della Haggadàh. Poi la Mazzàh, galletta croccantina e insapore. Né buona né cattiva, ma gusto che evoca memorie passate quando la si riassapora dopo un anno. La si accoglie bene, e dopo otto giorni la si abbandona con piacere, dopo averla usata e riciclata nelle mille ricette che caratterizzano Pesach, dagli scacchi al dayenu, dalla minestra di verdura alle frittelle. Poi arrivano i ricordi, legati ai canti della Haggadàh, che evocano presenze familiari passate. Per definizione Pesach è il passaggio da una generazione all’altra: bambini recitano le domande sul cosa c’è di diverso, ma nishtanà?, e anziani stanchi rispondono con canti che arrivano da lontano. Poi l’anno dopo i bambini sono cresciuti e non vogliono più fare domande, e i vecchi se ne sono andati perché hanno trovato le risposte, e allora ci si trova a leggere e a ragionare su un testo che comunque ti interroga. Ti costringe ad attualizzare l’interrogativo sulla libertà, sul suo significato immanente e presente, senza dimenticare che ci stai ragionando a partire da un testo che è lo stesso di quello scoperto nella Genizah del Cairo, scritto novecento anni fa. E che centinaia di anni prima era ancora e sempre quello. Una continuità di cui si deve tenere conto, ma che non ti deve far perdere di vista il suo significato nella realtà che vivi tu, ora, e in quella che stai costruendo per i tuoi figli. E allora ben venga l’obbligo di “ricordare” che anche noi siamo stati schiavi in terra d’Egitto, per dare valore alla nostra libertà di oggi, e per pensare alle nostre responsabilità, politiche e civili, nell’assicurare le stesse libertà a chi ancora non ne può godere.

Gadi Luzzatto Voghera, storico

(22 aprile 2016)