Segnalibro – Mio padre era fascista
Successo, considerazione, una bella famiglia. Vittorio Battista è un uomo fortunato. Ma sotto la superficie c’è un mondo interiore popolato da fantasmi e da una devastante solitudine. La consapevolezza di trovarsi irrimediabilmente dalla parte degli “sconfitti”. Una consapevolezza che lo divora da quando poco più che ventenne, provato dalla prigionia, ha assistito impotente al crollo del suo mondo. L’Italia fascista non esiste più. E per i repubblichini, per chi in quella causa ha creduto, non ci sono più incoraggiamenti. Soltanto catene, urla e sputi.
Una ferita destinata a non rimarginarsi, un carico di sofferenze destinato a riversarsi anche sui suoi cari e a marcarne le diverse scelte ideologiche. Come ben racconta il figlio Pierluigi (nell’immagine) in Mio padre era fascista (ed.Mondadori), sofferta testimonianza in cui l’editorialista del Corriere della sera, di cui è noto l’impegno democratico, scava nelle pieghe dell’incontro di pugilato “senza fair play” della loro esistenza.
Il distacco, gli scontri, l’allontanamento. Il 25 aprile che per Vittorio era “La Sconfitta”, mentre per il figlio un momento di passione civile ma anche l’occasione per infliggere nuove ferite nella carne viva. Le parole dette e quelle non dette. Il rimpianto per una riconciliazione cercata, ma possibile oggi solo nelle pagine di un libro che il padre non potrà mai leggere.
La rottura si consuma nel pieno dell’adolescenza. E fu, dice Battista, aspra, violenta e dolorosa. “Me ne andai nel campo opposto con la stessa esagitazione di Gabriele d’Annunzio che, a fine Ottocento, spiccò un balzo verso i banchi parlamentari della sinistra proclamando con la solita ostentata magniloquenza: ‘Vado verso la vita!’. Ero insofferente di tutto, di pellegrinaggi, catacombe, lutti, martiri. Non ne potevo più del fascismo triste dei simboli funerei di chi – scrive l’autore – si ostinava con risentita caparbietà a tenere la testa all’indietro, prigioniero di nostalgie, rimpianti, rancori”.
Perché Vittorio Battista era al tempo stesso il professionista solare che viveva e lavorava al centro di Roma e il reduce ossessionato dall’estetica lugubre del Ventennio, il ragazzo sconfitto che non dimenticava l’umiliazione del campo di Coltano e l’uomo perbene “rispettato anche da chi un tempo gli era stato avversario”.
Una realtà con cui è tornato a confrontarsi, duramente, dopo la scoperta di un diario segreto tenuto dal padre. Il sofferto invito a fare i conti in tutto e per tutto con quell’eredità. E così il ricordo diventa dolore, lacrime, emozioni come mai prima. Insieme alla sfida di rendere la figura paterna in tutta la complessità. Perché anche un fascista tutto d’un pezzo come Vittorio, amico intimo di Almirante e di altri protagonisti del Movimento Sociale Italiano, non è un monolite. Ma un essere umano con le sue sfaccettature e contraddizioni.
Significativamente, le crepe più rilevanti si aprono quando in casa Battista viene evocata la “grande ombra”, e cioè la persecuzione e la deportazione degli ebrei italiani nei campi di sterminio. Il fascista Vittorio, sempre così netto nei giudizi, sempre così poco propenso a mettersi sulla difensiva, si legge, “diventava all’improvviso esitante, insicuro, imbarazzato”. Anche se c’era sempre un “però” nei suoi discorsi e nelle sue reazioni. Si vergognava, “moltissimo e sinceramente”. Però. Non esitava a definire l’antisemitismo fascista “un errore”. Però. Il però, annota il figlio, “come ultima disperata trincea difensiva”.
Nessuna esitazione invece quando si tratta di aprire gli occhi al figlio, divorato dalla più meschina retorica antisionista. Rivolgendosi a Pierluigi e un suo amico, colpito dallo stesso morbo, Vittorio appare infatti severo e irremovibile. “Ancora non vi è bastato? Li volete vedere tutti morti, non capite che vogliono sgozzarli uno per uno?” dice ai due giovani.
Parole che ebbero sul figlio l’effetto di uno choc. Oltre a costituire oggi la prova delle infinite complicazioni, viene spiegato, “che la vita e la politica possono riservarci, sorprendendoci sempre”. Perché a mettere in guardia “dalle più inconsapevoli valenze antisemite delle nostre idee nei confronti dello Stato degli ebrei” fu un fascista, uno sbagliato, un reietto, un complice.
Uno scontro, quello dell’estate del ’72, destinato a segnare il percorso di Battista jr. Soprattutto perché è da allora, rivela il giornalista, che la battaglia per il diritto all’esistenza di Israele “è diventata per me un impegno esistenziale e un imperativo morale”.
Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked
(25 aprile 2016)