I vuoti della memoria
“E le foibe?” Già, le foibe. La domanda stava lì, formulata in mente altrui ben prima che si avviasse il dibattito e fosse lanciata, con tratto polemico e piglio iconoclastico, contro i relatori. Attendeva infatti solo il momento opportuno per essere espressa con un calcolato grado di teatralità. Quasi a volere dire: sì, sì, tu stai ad argomentare e a ragionare ma io adesso, con un colpo mancino, ti spiazzo. Tante tue parole, arzigogolate, ma poi a vincere, strappando l’applauso, un rimando solo, quello ad una tragedia. Peraltro, non si tratta in sé di una novità. Capita spesso. Si va a parlare, con qualcuno, a volte con molti, di fatti (e misfatti) della storia recente, si spiega – sgolandosi – la differenza tra comprensione e giustificazione, si cerca di tenere insieme una pluralità di fattori (non le “ragioni” e neanche la “buona fede”, di cui sono lastricate le strade dell’inferno) e poi, come l’asso che esce improvvisamente da un mazzo di carte (o dal polsino), facendo piazza pulita delle disposizioni di gioco, ecco che la carta viene implacabilmente calata sul tavolo. Che poi i relatori, proprio sulle foibe e, ancora di più, sull’esodo forzato degli italiani dai territori giuliano-dalmati, dalla penisola istriana tra il 1943 e il 1953, abbiano lavorato ripetutamente, poco o nulla importa a colui, o colei, che non vuole intavolare nessuna discussione ma solo affermare un precetto che sta in cuore suo da sempre: se si parla di fascismo, e di occupazione tedesca in Italia, ciò che si dice è quasi sempre la “versione ufficiale”, quella di comodo, ammannita da settant’anni di “regime”. E poi si dice di “zona grigia”, allora come oggi. Poco discosto si percepisce come una sorta di silente e sordo rancore: smettetela di parlarci di “scia di sangue”, come anche di “resa dei conti”; finitela con il rimando alla memoria di chi disse di no, come di chi terminò i suoi giorni in un Lager o semplicemente ammazzato per strada, poiché si trovò nel posto sbagliato al momento meno opportuno. I vinti, certi vinti, magari dalla camicia nera, si sa, possono essere i reietti, i proscritti dalla storia, quindi condannati ad una dannazione della memoria che consiste nel cancellarli da qualsiasi orizzonte di senso; oppure, diventare quelli che hanno ragione per il fatto stesso di essere stati in qualche modo sconfitti da qualcosa o da qualcuno. Gli “infoibati” (un’espressione terrificante, ma oramai di uso comune) tra questi e, per effetto di traslazione, gli stessi fascisti. Che poi tra i primi vi fossero solo in parte i secondi, i quali invece con senso della circostanza e dell’opportunità avevano già abbandonato il campo, poco importa. Per meglio dire, ribaltando il concetto: conta nella misura in cui si recupera in pieno la falsa equazione tra italianità e fascisticità. Una cosa che i nostri connazionali che abitavano nelle terre di confine, dopo il 1943 pagarono con gli interessi. Come recitava il poeta-cantautore, nell’immaginario collettivo “gli eroi sono tutti giovani e belli”. L’effetto di fascinazione, inteso come una specie di immedesimazione nella condizione dello sconfitto, si trasforma in un’adesione incondizionata alle sue ragioni, ossia al suo progetto politico, quand’anche la prima (l’adesione) e il secondo (il progetto politico) non siano espressi chiaramente. Si tratta quasi di una sorta di mimetismo sentimentale ed affettivo. In questo percorso, il rimando alle foibe, e all’esodo degli italiani, conta solo nella misura in cui viene usato da secco contraltare, come una sorta di contrappeso da mettere sul piatto della bilancia nel nome di una “verità storica” che è la brutta copia della par condicio, politica e informativa, per la quale tutto si equivale. Proprio perché alla vicenda degli italiani d’Istria e Dalmazia va riconosciuta la dovuta rilevanza, contestualizzando quanto avvenne al confine orientale, e nelle terre ad esso prospicienti, in anni terribili, nulla delle loro tragedie può essere brandito come una specie di compensazione se non di parificazione nelle responsabilità trascorse. Sembra in sè un’ovvietà, così come è ovvio il fatto che le storie della Resistenza e dell’occupazione nazifascista non possano tradursi in un esercizio retorico o puramente celebrativo, fatto, quest’ultimo, sul quale invece le pubbliche amministrazioni troppo spesso indugiano ancora. Non si tratta di una questione storiografica e neanche di un deficit di cognizione storica. Quello che si deve sapere è infatti abbondantemente riconosciuto. Basta avere la buona volontà (e la buona fede) per informarsi. Altro ordine di discorso, invece, è il brandire un pezzo di storia come se fosse un’ascia di guerra. Si tratta di un atto politico, poco o nulla rispettoso delle tragedie trascorse, e ancora meno di quanti ne pagarono, incolpevoli, il conto, ma tutto proteso a delegittimare il presente. In un’ossessionante fazionalizzazione della memoria che ha trasformato un rilevante percorso di socializzazione della memoria in una sorta di mitografia, destinata ad offendere, per prime, le stesse vittime di quella tragedia. Come versificava il poeta, omaggiando l’amico Walter Benjamin, appena suicidatosi: “Stancare l’avversario, la tattica che ti piaceva/quando sedevi al tavolo degli scacchi, all’ombra del pero./Il nemico che ti cacciò via dai tuoi libri/ non si lascia stancare da gente come noi”.
Claudio Vercelli
(1 maggio 2016)