Qui Bergamo, Qui Milano
Testimone, antropologo, etologoI tanti volti di Primo Levi
Continua in queste ore all’Università di Milano Bicocca la due giorni di convegno (apertasi ieri all’università di Bergamo) dedicata a “Primo Levi etologo e antropologo”. Un programma fitto, con ospiti prestigiosi, ciascuno a portare il proprio contributo per cercare di dare un assaggio dell’immenso lascito dello scrittore torinese, diventato riconosciuto come una delle voci più importanti della Shoah ma la cui opera va ben al di là di questo fondamentale tema. Ad aprire a Bergamo i lavori, presieduti nel corso della mattina da Marco Belpoliti (relatore nella sessione pomeridiana), erano stati gli interventi di Francesco Remotti, docente dell’università di Torino, e di Marco Aime, dell’Università di Genova, a cui era seguita la riflessione di Manuela Consonni, docente della Hebrew University di Gerusalemme e direttrice del Centro Internazionale Vidal Sassoon per lo Studio dell’Antisemitismo. “Teodicea e antropodicea: il dialogo di Levi con Giobbe”, il titolo dell’intervento della storica, dedicato al padre recentemente scomparso. L’importanza per Levi di Giobbe e del Qohelet, ha spiegato Consonni, è centrale nella sua riflessione come dimostra l’interrogativo con cui apre La ricerca delle radici “Perché cominciare da Giobbe?”. Ed è lo stesso scrittore a rispondere: è una storia “splendida e atroce” che rinchiude in sé le domande di tutti i tempi. Giobbe, sottolinea Consonni, è il giusto oppresso dall’ingiustizia in cui possiamo individuare un archetipo filosofico. Ed è proprio sulla giustizia che si fonda la riflessione di Levi, che sceglie solo alcuni capitoli della storia di Giobbe e pone al centro il tema dello scontro tra uomo e Dio.
Un cambio di disciplina si è avuto invece con l’intervento di Domenico Scarpa, giunto a Bergamo a rappresentare il Centro Internazionale di Studi Primo Levi insieme al suo direttore, Fabio Levi. Scarpa ha aperto chiedendosi cosa potrebbe insegnare all’antropologia una impostazione conoscitiva come quella leviana? Per il linguista la prima delle ricerche sul campo – ossia nel lager – si è tradotto nella opera prima leviana, che ha rilanciato in maniera forte il rapporto tra storia e morfologia, in quello che può essere visto come uno studio sugli effetti di condizioni limite sugli uomini. Riconosciuto eccellente antropologo da Claude Lévi-Strauss, utilizzava una grande pluralità di metodi di indagine, in cui era sempre molto presente la sua cultura scientifica, come mostra, per esempio, l’utilizzo della definizione tecnica di stato limite, che è quella soglia oltre cui una struttura diventa inaccettabile in termini di sicurezza (ossia è pericolosa) oppure di utilizzo (non è funzionale). Nella prefazione a un’edizione scolastica Primo Levi racconta di aver pensato, da ragazzo, di diventare prima linguista e poi astronomo, per approdare infine alla chimica. Nella sua vicenda, sia etnografica che letteraria, è evidente una grande capacità di empatia, di immedesimazione nell’altro e – conclude Scarpa – grande dettaglio e grande ermeneutica si uniscono.
Per il semiotico Gianfranco Marrone, dall’Università di Palermo, impegnato in una relazione intitolata “Bestialità”, accostare antropologia ed etologia nell’opera di Levi è in linea con la visione recente che supera l’opposizione fra natura e cultura, per arrivare a costituire insieme – uomo e animale – una forma complessa di intersoggettività e, infine, di società.
Superare gli specialismi è in sé già un avvicinarsi alla prospettiva di Levi, in cui è costante una molteplicità di punti di vista, ma per essere radicali per Marrone bisognerebbe parlare di dilettantismo, nel suo senso più positivo e più alto. “Di lui si dice che era chimico ma anche quasi etnologo, scrittore ma anche quasi… poi togliamo i quasi, poi li rimettiamo. Ma da lui dovremmo imparare che si tratta sempre di un ‘altrui mestiere’ e che questo non impedisce di accostarsi a temi e materie con grande serietà”. La sua analisi di un racconto forse meno noto, Censura in Bitinia, ha portato il discorso sull’idea leviana di “bestialità”, che pare partire dall’assunto che l’animale non è un essere naturale più di quanto l’uomo non sia un essere sociale. Un genere che sarebbe difficile descrivere, come i tanti in cui il racconto si concentra su situazioni che potrebbero avverarsi in futuro, in questo caso un tentativo di gestire la necessità della censura. Chi può farsi carico dell’atto del censurare? L’interrogativo che emerge dal testo di Levi, in cui trovare del personale che se ne occupi è molto difficile perché quando vi sono addetti gli uomini si ammalano. Neppure il tentativo di utilizzare delle macchine può funzionare, e allora si passa al tentativo di utilizzare degli animali “condizionandone le scelte”, passaggio importante e significativo. Alla fine i più adatti a una simile operazione sono i polli domestici, e il tentativo va a buon fine. Il racconto si chiude con l’ipotesi che il sistema censorio possa essere applicato e diffuso in tutti gli uffici. Ma a conclusione del testo il ribaltamento spiazzante, che rimette in discussione qualsiasi cosa si sia letto e forse capito: in fondo alla pagina c’è il visto della censura, convalidato dalla firma del responsabile. L’impronta di una zampa di gallina.
Ada Treves @atrevesmoked
(4 maggio 2016)