Israele, in banca un tetto ai compensi
Anche in Israele infuria la polemica sui compensi dei top manager delle grandi banche; un disegno di legge che sta iniziando l’iter parlamentare, e che prevede un tetto annuo di 2,5 milioni di shkalim (circa 600 mila euro) per i compensi dei banchieri, ha suscitato aspre proteste delle banche e ha messo in imbarazzo il Primo ministro Benjamin Netanyahu. Come mai si è arrivati solo ora a questa proposta, che giunge a quasi 10 anni dallo scoppio della crisi finanziaria del 2007? In cosa differisce dalle soluzioni adottate in altri Paesi? La proposta di legge è stata fortemente voluta dal ministro delle Finanze Moshe Kahlon, leader del nuovo partito Kulanu (“tutti noi”) , entrato nella Knesset con un programma elettorale di difesa dei consumatori e del “popolo del cottage cheese”, quello che nel 2011 aveva manifestato nelle piazze contro l’elevato costo della vita. La proposta di Kahlon ha messo in imbarazzo Netanyahu soprattutto perché quest’ultimo è tradizionalmente a favore del “libero mercato”, ma anche perché Kahlon potrebbe aumentare i propri consensi e mettere in ombra il Primo ministro. Uno dei motivi della veemente reazione contraria delle banche israeliane è che la proposta di legge in discussione alla Knesset è decisamente più restrittiva rispetto alle soluzioni adottate negli Usa e in Europa, dove sono stati imposti dei limiti ma solo alla componente “variabile” dei compensi dei banchieri, ossia i bonus (premi commisurati, in teoria, ai risultati), ma non sugli stipendi base (in Israele il tetto si applicherebbe ad entrambe le componenti). Ma quali sono, in generale, le argomentazioni pro e contro l’imposizione di limiti ai compensi dei manager bancari? Le banche si difendono sostenendo che sono aziende private e in un’economia di libero mercato i proprietari, ossia gli azionisti, devono essere liberi di pagare profumatamente un manager se questo porta a casa dei buoni risultati; secondo questo punto di vista, un effetto pratico di un eventuale tetto agli stipendi sarebbe quello di far “scappare “ all’estero i migliori manager. Vi è invece un’altra scuola di pensiero secondo cui l’intervento dello Stato, solo apparentemente intromissivo, è giustificato dal fatto che in pratica in tutti i Paesi il settore bancario gode di una “promessa implicita” di sostegno pubblico in caso di crisi: se è vero che quando sta per fallire una banca allora, al fine di evitare una reazione a catena (cosiddetta corsa agli sportelli), lo Stato è sempre pronto a intervenire col denaro dei contribuenti (cosi è andata nella fase più acuta della crisi del 2008) , secondo questo ragionamento ne consegue che è giusto che “i contribuenti” impongano dei controlli agli stipendi dei banchieri, in quanto questi ultimi sono di fatto beneficiari di un “sussidio statale”. Non è ancora sicuro che il disegno di legge presentato dal ministro Kahlon venga approvato nella forma attuale ma quello che è certo è che anche questo caso conferma che i governi israeliani denotano quasi sempre una grande coraggio e lungimiranza quando si tratta di temi economici (purtroppo non si può dire lo stesso per la politica estera), cercando di adottare le “migliori pratiche” a livello internazionale.
Aviram Levy, economista, Pagine Ebraiche Maggio 2016
(Nell’immagine, il governatore della Banca centrale d’Israele Karnit Flug e il ministro alle Finanze Moshe Kahlon)
(8 maggio 2016)