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Il buon uso della parodia
Spiegare che cosa abbiano in comune il mito della “bella Elena”, rivisitato da Jacques Offenbach e l’uso parodistico di Casablanca in Play it Again (dove un redivivo Humphrey Bogart esclama: “È tutta la vita che aspetto di poter dire questa battuta”) non è impresa semplice. Tra Offenbach e Woody Allen la storia della parodia si estende per due secoli abbondanti e ha conosciuto diverse forme nella cultura ebraica. Nei lessici famigliari nostrani e nei finzicontinici non manca mai la figura del giovane talentuoso che imita tic verbali e posture di un vecchio zio. Il tema delle imitazioni parodiche questa settimana mi è tornato in mente leggendo la magnifica intervista di Aldo Cazzullo, “Cambiai identità e ingannai i nazisti” a Franca Valeri (Corriere della Sera, 6 maggio 2016), ma è da leggersi anche, della stessa, La vacanza dei superstiti (e la chiamano vecchiaia), Einaudi, 2016. Un saggio famoso di Cesare Cases ci aveva già raccontato gli esordi artistici della Valeri durante i mesi della clandestinità in Brianza. Perdono volentieri la eccessiva linea di credito che Franca Valeri apre adesso a Luciana Littizzetto, che di strada deve percorrerne ancora molta prima di essere definita la Valeri dei nostri tempi senza molto riuscirci.
Smettere di essere se stessi per diventare “quasi come” gli altri impone un discorso su due opposti versanti della storia ebraica in età contemporanea. Nell’età dell’assimilazione c’era il problema di costruire un’identità psicologica forte, stabile. Non solo in Italia, incertezza e instabilità avevano frantumato il modo ebraico di dire “io”. Le cose hanno poi preso una brutta piega negli anni della persecuzione: “Prima ingannai i fascisti”, ricorda Franca Norsa Valeri, “e presi il diploma. Poi cambiai identità: ci fu un momento in cui io non ero io; ma così sfuggii ai nazisti. Questo mi ha aiutato a sentirmi ebrea, come mio padre”.
Alberto Cavaglion
(11 maggio 2016)