Collezionare lingue per comprendere il mondo
Si definisce una “collezionista di lingue” Anna Linda Callow, traduttrice dallo yiddish e dall’ebraico per varie case editrici, ma anche insegnante di Lingua e letteratura ebraica all’Università degli Studi di Milano. Per questo diventare traduttrice è stato la sua fortuna, come spiega a Pagine Ebraiche. Tutto è iniziato circa vent’anni fa, “quand’ero un’eterna studentessa di lingue semitiche all’università di Milano e da Adelphi mi contattò un mio professore per sapere se qualcuno potesse tradurre lo yiddish, che avevo imparato da sola sul College Yiddish di Uriel Weinreich dopo che tutti mi avevano consigliato di studiarlo”. Da quell’inizio un po’ casuale Callow ha tradotto molte opere per diverse case editrici tra cui, oltre Adelphi per cui ha curato l’edizione italiana de La famiglia Karnowski di Israel Singer, diventata un best seller, anche Giuntina, Einaudi e Mondadori, e di vari autori, tra cui Sholem Aleykhem e S.Y. Agnon. Tradurre è stata per lei una fortuna, motiva, perché da sempre coltivava un “amore per il linguaggio come espressione di una visione del mondo”. Conta certamente conoscere le lingue, in egual misura quella di partenza e quella di arrivo, poiché molto del lavoro sta anche nella resa in italiano di un linguaggio “con canoni estetici completamente diversi”, ma la parola che utilizza più spesso è “sensibilità”. Si tratta soprattutto, osserva, “della consapevolezza di ciò che significa letteratura, e del fatto che la lingua non è per forza sinonimo di letteratura”. Di certo è anche una questione culturale, soprattutto quando l’autore che si traduce punta più che sulla trama sulle scelte linguistiche, come avviene con Agnon, molto legato a una cultura basata sulle fonti della tradizione. Ma è una questione culturale anche nella misura in cui “tutti parlano di ebraismo senza saperne nulla, dall’uomo della strada ai grandi filosofi, e credo che diffondere sapere in questo campo sia il modo per far capire che i cliché sono cliché. Per questo traduco e anche insegno volentieri”. Si parla di amore, certo, ma anche di esperienza. E per acquisirla, le parole di Callow, “serve un buon maestro, come per la falegnameria. Io ho imparato tantissimo dal redattore di Adelphi che vent’anni fa mi fece fare quelle prime traduzioni, Roberto Cazzola e oggi mi sento in grado di insegnare a mia volta”. Il segreto è per lei sapere che ci sono delle cose da non fare, anche da un punto di vista molto tecnico, e “capire la differenza tra una versione e una traduzione, un testo che nasce per la pubblicazione”. Quello del traduttore è un lavoro lungo e lento, e spesso anche molto solitario. Per questo Callow ama interagire con gli autori delle opere che sta traducendo, e anche lavorare a quattro mani. “Lavorare con gli autori è delizioso, naturalmente quando gli autori stessi lo sono. In questo momento sto traducendo con un mio ex studente di un libro della poetessa israeliana Agi Mishol, che adora lavorare con i suoi traduttori, e penso che sia più facile che questo avvenga con i poeti, poiché scelgono ogni parola con cura”. Ma la traduzione può diventare anche un “evento sociale”, e così Callow si sofferma a rievocare un affascinante circolo letterario “a base di libri in yiddish, vodka e salatini ungheresi”, le cui riunioni si svolgevano una quindicina di anni fa “in uno stanzino sopra casa mia oppure nel mio studio segreto in un vecchio magazzino”. Da quegli incontri, ai quali partecipavano tra gli altri Claudia Rosenzweig, (con cui Callow ha tradotto varie opere di Agnon), Franco Bezza, insegnante al conservatorio di Como, e lo storico Haim Burstin, nacque la traduzione di varie opere di Sholem Aleykhem, tra cui Un consiglio avveduto, che Bezza, Burstin e Callow proposero ad Adelphi. Ed è proprio Sholem Aleykhem a essere citato come autore preferito da Callow. “Tradurre un autore che si ama è molto emozionante e lui mi è rimasto nel cuore”.
Francesca Matalon
da Pagine Ebraiche, maggio 2016
(12 maggio 2016)