Elena Loewenthal: “La traduzione perfetta
non esiste, ma va cercata”

loewenthal “Ho capito che in me c’era qualcosa che non funzionava al liceo: quando c’erano temi e versioni io mi divertivo. E mi piacevano le traduzioni, soprattutto dal greco”, racconta ridendo della scoperta fatta già a scuola, Elena Loewenthal, e dell’amore per la mediazione fra lingue e culture che l’accomuna ad Anna Linda Callow, Marina Morpurgo e Ada Vigliani, quasi un segno identitario che insieme alla frequentazione della cultura ebraica e al gusto per la propria lingua e per la lettura unisce traduttrici seppur molto diverse sia per percorso professionale che per esperienze personali.
Nominata lo scorso novembre addetto culturale presso l’Ambasciata d’Italia in Israele, Loewenthal è autrice di saggi e romanzi, oltre che traduttrice e curatrice di molti testi della tradizione ebraica e d’Israele. Da anni è quotidiana la sua consuetudine con la parola scritta, che è alla base del suo lavoro sia che stia traducendo autori israeliani, dall’ebraico, o che si dedichi alla scrittura. La traduzione, cui si dedica dalla metà degli anni ottanta, quando lavorando insieme a Sarah Kaminski ha iniziato a proporre libri che gli editori non sapevano, letteralmente, da che parte prendere, l’ha portata a contatto con i grandissimi della letteratura israeliana, che frequenta da molto tempo, sia attraverso le pagine che personalmente.
“Se non avessi tradotto i libri che ho tradotto non avrei scritto quello che ho scritto. Il confronto con la parola scritta per me è scoperta continua, un corpo a corpo col testo che, per lo meno per la prima stesura, voglio affrontare da sola, senza mai cercare subito il contatto con l’autore”. Già lavorare sulle bozze di Amos Oz è un enorme privilegio, racconta, anche se può capitare che per una sovrapposizione dei tempi di lavorazione succedano cose curiose, come per esempio con Una storia d’amore e di tenebra, che nella versione italiana ha in un paio di pagine qualche differenza dall’originale. “Perché l’autore ha continuato a lavorare dopo che ho avuto il testo. Ne abbiamo parlato, ovviamente, e deciso di lasciare il testo così”. Sono due lingue molto differenti, l’ebraico e l’italiano, e il testo non solo va decodificato, ma è necessario fare un lavoro di ricostruzione di cosa avrebbe scritto in italiano l’autore, se avesse scritto in italiano. In ebraico mancano gli avverbi, e gli aggettivi scarseggiano, e invece, spiega Loewenthal, vanno messi anche se non ci sono, cercando di rispettare non solo il senso e lo stile, ma anche sonorità, suggestioni e significati profondi dell’originale. “Spesso è più una questione di interpretazione che di traduzione: una difficoltà è data per esempio dalle differenze delle costruzioni verbali. Ma non è solo un problema grammaticale, gli autori israeliani usano il tempo come sostanza di vita, in maniera molto differente dagli italiani. In Israele si pensa al tempo e al trascorrere del tempo in una maniera diversa. Ma da capire non è la lingua, è la cultura”. Racconta di aver imparato a rassegnarsi all’idea che qualcosa si perde, perché la quantità di riferimenti intraducibili è enorme, nonostante il lavoro più importante vada fatto sulla lingua d’arrivo: “Più vado avanti e più mi rendo conto che la cosa fondamentale è sempre il poter disporre di tutte le potenzialità dell’italiano. Bisogna costantemente impegnarsi per arricchire il proprio lessico, leggere tantissimo, controllare sintassi e obiettivi, sapere dove si vuole arrivare non basta se manca poi il materiale linguistico e lessicale per rendere il testo. Tutto è traducibile, ma non esiste la traduzione perfetta. Però è sempre emozionante vedere come dopo ogni traduzione, quando torno a scrivere, la mia lingua madre sia mutata. Ogni volta che traduco so che il mio italiano riceverà regali”.

da Pagine Ebraiche, maggio 2016

(12 maggio 2016)