L’uccisione del leader hezbollah – Quel terrorista in yacht
L’ultimo mistero riguarda chi l’abbia ucciso e come. L’unica cosa certa è che una potente esplosione all’aeroporto di Damasco ha messo fine ai giorni di Mustafa Amine Badreddine, il più importante comandante militare dell’Hezbollah libanese. Il leader delle operazioni in Siria che nel 2013 hanno salvato Bashar al-Assad dalla disfatta. E l’uomo che secondo il Tribunale dell’Aja sta dietro l’assassinio del premier libanese Rafik Hariri.
Lo stesso Hezbollah ha parlato prima di un raid dell’aviazione israeliana, poi di una bomba, poi di “indagini in corso”. Il gruppo ribelle Jaysh al-Sunnah ha rivendicato l’attacco, ma sembra solo un cappello messo sopra un’operazione altrui. Nessuno, né Israele né il Partito di Dio, ha interesse a mettere tutto in chiaro.
L’attentato ad Hariri a Beirut nel febbraio 2005 è lo spartiacque della lunga carriera di Badreddine. Combattente, resistente, ora “martire” che per i migliaia di militanti alle sue esequie “ha fermato Israele e l’Isis”. Oppure il “più pericoloso terrorista” del movimento sciita libanese, secondo un membro dell’organizzazione interrogato dai servizi canadesi.
Per Hezbollah era Dhu al-Fagar, la spada che Maometto regalò al genero Ali bin Abi Talib, capostipite dello sciismo. Per gli inquirenti il suo secondo nome era Sami Issa, titolare di una gioielleria a Jounieh, la Montecarlo del Libano, a venti minuti di auto da Beirut. Una copertura nel segno di belle donne, feste su yacht e casinò.
II resto sono ricostruzioni. Badreddine non aveva un passaporto, né patente, né un conto in banca. Viaggiava di continuo sulla “strada di Damasco” che unisce le capitali libanese e siriana. Dai summit ristretti con Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, a quelli nella “war room” siriana con Assad, i generali del raiss e i russi. A Beirut l’avevano notato a gennaio al funerale del nipote Jihad Mughniyeh, ucciso da un drone israeliano sulle alture del Golan. Un missile in realtà diretto a lui.
Jihad era il figlio di Imad Mughniyeh, a sua volta cugino e cognato di Badreddine. Anche Mughniyeh, comandante di Hezbollah, è morto a Damasco, nel 2008, dilaniato da una esplosione. Un altro colpo del Mossad a segno della capitale del più tenace avversario. Un intreccio, quello fra Mughniyeh e Badreddine, di sangue, guerra e politica.
I due sono fra gli organizzatori della “resistenza islamica” durante l’invasione israeliana del Libano, la parte più terribile della guerra civile 1975-1990. Nel 1983 i primi camion bomba kamikaze in Medio Oriente uccidono 58 parà francesi e 161 marines americani a Beirut. Hezbollah, nato da una costola del partito sciita Amal con il soldi e i consiglieri dell’Iran, diventa il protagonista della storia libanese. E Badreddine, ventiduenne, esponente di spicco. Un anno dopo però è in carcere in Kuwait, con una condanna a morte in vista. Accusato degli attentati alle ambasciate francese e americana, sei morti. Per gli inquirenti ha agito su ordine di Mughniyeh. II cugino fa di tutto per ottenere la liberazione. Tre dirottamenti di aerei kuwaitiani, sequestri di occidentali a Beirut per uno «scambio di prigionieri». Sarà lo sterminatore di sciiti Saddam Hussein a consentirgli la fuga, quando nel 1990 l’invasione del Kuwait apre le porte delle prigioni. Uno dei tanti paradossi nella vita di Badreddine. Gli altri G ha in parte ricostruiti l’inchiesta sulla morte di Hariri. Badreddine è uno dei cinque imputati in contumacia. Secondo i tabulati telefonici esaminati dal Tribunale del-l’Aja, avrebbe diretto l’operazione da Jounieh, cittadina cristianissima e peccaminosa, con i suoi bordelli e casinò. Martire e viveur, il doppio destino della “spada di Ali”.
Giordano Stabile, La Stampa, 14 maggio 2016