Da Tel Aviv a New York, la mostra su Israele e i suoi vicini Fascino e complessità, ritratti di posto unico
Ha un nome trilingue – ebraico, arabo e inglese – e si presenta dichiarando: “‘This Place’ ossia ‘Questo posto’ esplora la complessità di Israele e della West Bank come luogo e come metafora attraverso gli occhi di dodici fotografi di fama internazionale”. Frédéric Brenner, anch’egli fotografo e ideatore del progetto, ha spiegato che quando è in gioco la “condivisione di una origine”, è necessario raccogliere la voce di individui le cui diverse storie personali, passioni e prospettive – anche paradossali e contraddittorie – possano aiutare a cogliere quella che ha definito “la complessità insopportabile di ‘Questo posto'”, e le sue voci. La mostra, dopo aver iniziato il suo viaggio al Dox Center for Arts di Praga, per essere esposta poi al Tel Aviv Museum of Art e in Florida è ora aperta fino a giugno al Brooklyn Museum di NewYork e presenta più di 600 immagini di dodici grandi fotografi. Frédéric Brenner, Wendy Ewald, Martin Kollar, Josef Koudelka, Jungjin Lee, Gilles Peress, Fazal Sheikh, Stephen Shore, Rosalind Fox Solomon, Thomas Struth, Jeff Wall, e Nick Waplington arrivano a comporre un ritratto complesso, frammentato e incredibilmente vitale, proprio per la loro capacità di rappresentare le contraddizioni, le fratture e i paradossi di una parte di mondo che è contemporaneamente sia un luogo reale che una metafora. I dodici artisti hanno affrontato il soggetto ciascuno a proprio modo: tra il 2009 e il 2012 hanno trascorso lunghi periodi in Israele e in Cisgiordania, hanno viaggiato in tutta la regione, e sono andati ad incontrare una varietà impressionante sia di persone che di comunità. Sono così dodici punti di vista distinti, che raccontano temi anche molto differenti fra loro, in cui alcuni elementi però ritornano: la famiglia, l’identità, la casa, e poi il paesaggio e l’ambiente. E il conflitto israelo-palestinese, ovviamente, che è impossibile ignorare, lascia il segno su molte delle immagini in modi che però spesso non sono immediatamente evidenti. Così le grandi sale ospitano una mostra che spinge i visitatori a superare la narrazione solita, quella più vista sui media, riguardo a Israele e vicini palestinesi, in cui le posizioni reciproche vengono spesso estremizzate, e polarizzate, per arrivare a uno sguardo profondamente umano che porta a sollevare problemi, porre domande e coinvolge, con una narrazione che diventa conversazione. A porre domande essenziali sulla cultura, sulla società, sulla vita degli individui, così, è una sorta di narratore collettivo, che diventa eterogeneo proprio in un luogo affascinante, a tratti paradossale e in cui ogni ombra è profondamente risonante, come risultato della combinazione di diverse singole sensibilità fotografiche, e ovviamente dei diversi approcci. Si trovano così ritratti di famiglie haredi, plastiche e immobili, di beduini impegnati a raccogliere le olive, dei giovani e sorridenti soldati di Tsahal, pilastri di Israele: le tante anime di una realtà catturata nel corso di un progetto avviato ben sette anni fa.
A guardare attraverso l’obiettivo resta comunque sempre un essere umano, un artista che porta con sé le proprie idee e il proprio vissuto, messi alla prova quando si tratta di raccontare la complessità di un luogo difficile da riassumere in pochi scatti. E diventa subito chiaro come per iniziare a comprendere la dissonanza radicale di una simile realtà è essenziale la capacità di riconoscere l’esistenza delle diversità, della loro bellezza come anche dei conflitti umani in corso e dare loro voce, senza paura e senza censura.
Ada Treves
(15 maggio 2016)