Diritto e Halachah: tre linee di attualità. Note a margine di un convegno

Schermata 2016-05-19 alle 14.35.49Gli interrogativi che i due volumi di Francesco Lucrezi si pongono sono numerosi ed importanti e la costruzione delle risposte trae linfa dal metodo comparatistico, ove diritto romano e diritto ebraico sono accostati (come avviene nella Collatio legum Mosaicarum et Romanarum, di epoca e autore incerti, cui è dedicato uno dei due saggi) ovvero giustapposti per far emergere la complessità della riflessione giuridica ebraica su temi vecchi e nuovi.
Per citare alcuni di questi interrogativi: esiste una gerarchia delle fonti nel diritto ebraico? I Dieci comandamenti possono considerarsi gerarchicamente sovraordinati alle altre (Torah, Mishnah, ecc.) per la Fonte da cui promanano? Si tratta di principi ordinatori o di precetti immediatamente vincolanti? Le esortazioni morali come “Kedoshim tihiu, ki Ani Kadosh” (siate santi perchè santo sono Io) sono regole giuridiche? Il metodo “casuistico” tipico del ragionamento talmudico a quale canone ermeneutico della tradizione giuridica romanistica corrisponde? Cosa dice il diritto ebraico sui temi bioetici e sull’inizio vita?

I due saggi, pur se di oggetto diverso, hanno un tratto comune che li caratterizza: ed è la attualità del messaggio che essi, più o meno esplicitamente, recano. Non penso sia estranea alla riflessione dell’autore la concomitanza di due eventi editoriali straordinari: la prima traduzione italiana del Talmud babilonese (Giuntina 2016) e la ri-edizione del Corpus Iuris giustinianeo (in corso di pubblicazione).
Almeno tre sono a mio avviso le “linee” di attualità del diritto romano antico e di quello halachico presenti nei saggi di Lucrezi.

La prima. È nota la distinzione tra Haggadah e Halachah (rispettivamente, apparato narrativo e normativo della tradizione talmudica). Tuttavia, per il discorso giuridico, a questa distinzione se ne deve preferire un’altra, ovverosia quella tra Mishpat Ivrì (lett. diritto ebraico) e Halachah. Il primo è frutto della emancipazione e dunque della separazione tra precetti “civili” e morali (ne è un esempio il diritto in vigore nello Stato di Israele); la seconda è emanazione della tradizione rabbinica ultramillenaria. Mishpat Ivrì e Halachah riguardano entrambi il comportamento umano, ma la Halachah regola oltre a questi anche la sfera morale, la quale, essendo connaturata all’uomo, è per definizione sempre attuale. Da questo angolo visuale, cioè, la Halachah non solo è diritto positivo (in quanto ancora oggi regola i comportamenti), essa è anche diritto vivente, in quanto frutto della discussione rabbinica e dei responsi dei tribunali rabbinici e, come dice bene Lucrezi, essa è anche un diritto “vitale”.

Una seconda linea di attualità si ritrova nella funzione dello studio della Halachah come del diritto romano oggi. Come detto, a differenza del diritto romano – che oggi non è più cogente – quello halachico ancora vincola comportamenti e coscienze. Tuttavia, di entrambi si può e si deve predicare la attualità “formativa”. Lucrezi lo dice bene: il diritto romano serve a capire il diritto positivo, ci aiuta a comprendere la ratio e l’evoluzione di istituti giuridici “attualmente” vigenti. Parimenti, l’attualità della Halachah passa per una funzione formativa rilevantissima. Disse un professore di diritto quando ero ai primi anni di università che gli ebrei sono stati i primi interpreti del diritto. Così, in questa ottica, il diritto halachico può essere letto come uno dei primi grandi sforzi interpretativi del diritto compiuti dall’umanità.

Passando alla terza linea di attualità, essa è rinvenibile nelle pagine in cui Lucrezi si interroga sul superamento del diritto romano come diritto dell’occidente per antonomasia. E qui vengono alla mente gli sforzi dei giuristi europei contemporanei, che da tempo si confrontano per individuare i presupposti e redigere codici di diritto europeo (ad es., di diritto privato, amministrativo, dei consumatori, ecc.). La elaborazione di simili codici richiede necessariamente la ricerca dei “fondamenti” dei diritti e delle tradizioni giuridiche nazionali. Non sto evidentemente parlando di “radici ebraico-cristiane” dell’Europa – avendo fatto mio un insegnamento di Amos Luzzatto, già presidente dell’UCEI, che alla domanda sull’esistenza di tali radici sapientemente rispondeva se tra i due lemmi dovesse esservi un trattino oppure no – parlo invece di diritto positivo halachico e di metodo giuridico. Questi sono ancora impiegati e molto potrebbero dire al redattore dei codici di diritto contemporaneo.

E questo ci porta ai contenuti dei due saggi che presentiamo.
Tra i moltissimi temi trattati, mi pare che uno si imponga per pregnanza sugli altri, ed è quello del “limite” (e del confine). Se ne parla a proposito del furto della terra in diritto romano (possibile mediante lo spostamento dei confini) e se ne parla diffusamente a proposito del diritto halachico.
Qui specialmente, per restare su questioni giuridiche, il tema del limite è fondamentale: le mizvot sono precetti e dunque limiti al comportamento dell’uomo; la libertà interpretativa propria della tradizione rabbinica trova un limite nella Halachah (quanto più un tema è dibattuto e oggetto di discussione, tanto maggiore sarà la libertà interpretativa; una volta fissata la regola, che diviene precetto, la discussione rabbinica e la libertà interpretativa si attenueranno). Limiti esistono anche alla possibilità che un giudicato o una certa prassi rabbinica prevalgano su altre: nel diritto ebraico la prevalenza si basa anche su un criterio che oggi chiameremmo “meritocratico”, che si fonda cioè sulla “autorevolezza” del bet din (tribunale rabbinico) o della scuola rabbinica.

Un ulteriore limite è quello della motivazione dei precetti. Come ci ricorda Lucrezi esistono quattro casi: quello dei precetti non motivati in quanto auto-esplicativi (ad esempio, non uccidere); quello dei precetti non motivati ma opinabili; quello dei precetti motivati in modo chiaro ed esplicito; e quello dei Un ulteriore limite è quello della motivazione dei precetti. Come ci ricorda Lucrezi esistono quattro casi: quello dei precetti non motivati in quanto auto-esplicativi (ad esempio, non uccidere); quello dei precetti non motivati ma opinabili; quello dei precetti motivati in modo chiaro ed esplicito; e quello dei precetti motivati ma in modo opinabile. A me pare che serpeggi in queste pagine un interrogativo di fondo, che è di grandissima attualità: ovverosia se la motivazione del precetto sia da intendersi in qualche misura obbligatoria (nel senso che pure ove non sia esplicita, debba in qualche modo essere individuata). E questa è una domanda che, mutatis mutandis, il giurista contemporaneo si pone rispetto agli atti normativi, ovverosia rispetto a quegli atti che sono espressione del potere (legislativo in primis, ma anche esecutivo) e che nelle tradizioni liberali furono pensati come necessariamente “generali ed astratti”.

Fabiana Di Porto, Consigliere UCEI

(19 maggio 2016)