Firenze – Comunità unita nel ricordo del Morè

Schermata 2016-05-22 alle 14.58.46Quanto il messaggio del rav Umberto Sciunnach (1935-2015) sia ancora vivo è la sua Comunità, in tutte le sue anime, a testimoniarlo una volta. Una sala gremita, anziani, adulti, giovani e giovanissimi, ha infatti assistito alla commemorazione organizzata in ricordo dell’indimenticabile rabbino capo nelle sale comunitarie di via Farini con il sostegno dell’Area Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che insieme alla Comunità ha dato vita nel corso dell’anno a un ciclo di incontri nel suo nome – rivolto agli studenti e con la partecipazione di molti rabbini – che si è rivelato stimolante e ricco di contenuti.
Numerosi i Maestri che hanno voluto rendere omaggio alla memoria del rav, nato a Roma ma arrivata giovanissimo in riva all’Arno dove è stato anche chazan e shochet. E con i rabbini anche i vertici della Comunità ebraica di Firenze e di quella romana, oltre alle ragazze e ai ragazzi che hanno preso parte al ciclo di incontri, alla figlia Chiara.
Ad aprire l’iniziativa gli interventi della presidente Sara Cividalli e del maskil Gadi Piperno. Parole di Torah, unite a ricordi personali, riflessioni sul valore della vita e dell’insegnamento, sono state pronunciate da rav Joseph Levi, rav Riccardo Di Segni, rav Luciano Caro, rav Roberto Della Rocca, rav Gianfranco Di Segni, rav Umberto Piperno, rav Levi Wolvovsky, rav Roberto Colombo e rav Crescenzo Piattelli. Presente in sala anche la presidente della Comunità romana Ruth Dureghello, accompagnata a Firenze dal segretario Emanuele Di Porto.
“Una volta diventato rabbino, aveva continuato a farsi chiamare Moré.  Ha insegnato ai nostri genitori con l’amore di un padre verso i figli, per poi arrivare fino alla nostra generazione, e chi lo sa, forse anche alla generazione successiva. L’intero corso – ha ricordato la nipote Noemi – è stato il modo migliore di onorare la memoria del Moré, perché trasmettere la passione per lo studio della Torah è trasmettere amore per il prossimo. Ed è questo che lui faceva”.

Mio papà e la corona del buon nome

Con il permesso dei rabbanim e dei miei maestri.
Non sono un Rav, non sono un maestro, non sono un saggio, non sono qui per insegnare ma solo per riflettere su una frase del Pirke Avot che amo molto:
Rabbì Shimon diceva: “Vi sono tre corone, la corona della Torà, la corona del sacerdozio e la corona del regno. Ma la corona del buon nome le supera tutte”.
Come possiamo interpretare questa frase?
Nella società ebraica l’uomo può cingersi di tre diverse corone, reali o simboliche che siano, perchè tre sono le strutture della società ebraica, si può essere grandi studiosi di Torà, grandi chachamim, osservare tutte le mizvot, avere ingegno acuto, grande intelligenza, come dice Mishlé :”gli uomini di grande ingegno sono incoronati di sapienza e cinti di una corona di gloria”.
La kehunà conferisce o meglio conferiva il privilegio di essere continuamente in contatto con Hashem, di essere in qualche modo in stato di separazione rispetto al resto di am Israel, i cohanim indossavano un copricapo particolare, lo ziz, il diadema d’oro con su incise le parole kodesh lehashem perché su di essi fosse chiara la loro identità spirituale, perché la santità e il divino risplendessero su di loro.
La terza corona è quella del re, il Tanach ci narra che Shaul mori cingendosi della corona reale e il re David si mise in testa la corona tolta al re degli ammoniti.
Ora, la Mishnà inizia dicendo che ci sono tre corone, ma in realtà alla fine ne enumera quattro, perché la quarta, quella del buon nome non è enumerata all’inizio o insieme alle altre? Che cosa ha di diverso per essere messa separata dalle altre?
I nostri Maestri risolvono questo problema dicendo che le prime tre corone non si acquistano per merito: quella della chochmà é un dono di Hashem, è Lui che dà la sapienza che permette di diventare chachamim, quella della kehunà si acquista per nascita, quella del regno per stirpe reale. La corona della chochmà si può perdere, anche quella della kehunà si perde se si vive in stato di trasgressione, un re può venire detronizzato, la storia ce lo insegna.
Ma quella del buon nome?
Kohelet afferma:” tov shem min shemen tov” , il buon nome è migliore dell’olio buono. Si può essere considerati grandi chachamim, cohanim o re senza il buon nome?
Ci vuole onesta, umiltà, resistenza al male e alle difficoltà che la vita ci pone, sforzo continuo per non lasciarsi trasportare dalle insidie e dagli stimoli negativi che ci vengono messi di fronte ogni giorno, bisogna essere grandi uomini per assicurarsi ma soprattutto per mantenersi un buon nome. Chi ci riesce è più grande di un cohen , di un re, di un grande intellettuale, di un grande studioso, di un uomo ricco che possiede oro argento e pietre preziose.
La stima degli uomini acquistata e mai perduta, l’affetto mai messo in discussione del kahal danno all’uomo un buon nome e il buon nome supera il tempo, lo spazio e si diffonde dovunque senza perdersi mai.
La corona del buon nome di mio papà è fatta di tanti materiali diversi: l’onore e il rispetto nei confronti di Hashem e della Torà che hanno sempre scandito la sua vita, sebbene colpito duramente dalla vita, l’umiltà che è sempre stata la sua principale caratteristica, la dedizione e l’amore disinteressato con cui ha seguito la sua comunità per anni, la semplicità con cui si porgeva al prossimo, il suo essere schivo nell’apparire e nel mostrarsi….., ma soprattutto il suo essere profondamente onesto e sincero.
Qualche giorno fa sfogliando un suo libro mi è saltato agli occhi la frase che aveva scelto per il suo ex libris “al ithallel chacham bechochmató”, non si vanti il saggio della sua saggezza.
Questo era il mio papà.
Oggi io sono sicura che mio padre abbia portato e porterà per sempre la corona del buon nome e sono orgogliosa di aver avuto un padre e un maestro come lui.
Non amo ricordare mio padre come rabbino capo di una comunità, preferisco ricordarlo per il suo umile sorriso, per il suo modo di andare incontro a chiunque avesse bisogno di lui senza fare differenza alcuna tra persona e persona, famiglia e famiglia, per le semplici pacche sulle spalle che fino alla fine dava ai suoi alunni, voglio ricordarlo per il suo buon nome.
Il ricordo di mio padre sarà di benedizione e sono sicura che durerà per molto, molto tempo.
Per finire questo mio breve intervento voglio fare dei doverosi e sentiti ringraziamenti: voglio ringraziare prima di tutto la Presidente della Comunità di Firenze Sara cividalli per il grande impegno che ha messo in questo progetto, un progetto che ha accolto fin dall’inizio con grande entusiasmo, l’UCEI e Rav della Rocca come direttore dell’area cultura, Rav Gadi Piperno, tutti i rabbanim e gli insegnanti che hanno dedicato il loro tempo ai ragazzi, la comunità di Firenze che ha messo a disposizione i locali per ospitarci, ma soprattutto voglio ringraziare i ragazzi stessi che hanno con forza, determinazione e impegno portato avanti questo importante progetto e vorrei dire loro di non smettere mai di studiare e di occuparsi di Torà, perche la Torà é Ez chaim, un albero di vita.
Le ultime parole voglio dedicarle proprio a loro, a questi giovani, con questa Mishnà: Iehoshua ben Perachià diceva: procurati un maestro, acquistati un compagno e giudica tutti dal lato positivo”
Grazie a tutti.

Chiara Sciunnach


La Torah come vita

La giornata di studi nasce dal desiderio di alcuni ragazzi di studiare e dal desiderio di onorare il ricordo di un Maestro da parte delle Comunità. Un incontro con Paola, Chiara e Debora, considerazioni, pensieri e l’idea di sentire il DEC, che immediatamente ha dato il suo sostegno nella persona di Gadi Piperno che desidero ringraziare particolarmente, per le tante e-mail e telefonate di cui l’ho sommerso in questo anno, per la pazienza, la capacità e competenza che ha dimostrato nell’organizzare un ciclo di incontri fruibili dai nostri giovani che sono stati entusiasti come entusiasti sono stai gli insegnanti provenienti da tutta Italia e che ringrazio per la disponibilità, sono orgogliosissima perché non è scontata l’assidua frequenza due domeniche al mese di ragazzi che hanno mille impegni ed interessi. Desidero ringraziare anche loro, i protagonisti.
Il mio pensiero va al Morè Umberto zl, credo, anzi sono convinta che il suo desiderio di Maestro, di genitore, di nonno fosse che i giovani studiassero parole di Torah e questo è stato. Umberto zl è stato anche un maestro di umanità, mi piace ricordarlo quando uscendo dal tempio, uno Shabbat mi si è avvicinato con affetto e vedendo la mia stanchezza mi ha ricordato quello che raccomandò Ytrò a Moshè.
Era all’inizio del mio mandato di Presidente, spesso mi sono appoggiata a quelle sue parole, alla sua attenzione nei miei confronti, per trarre la forza per continuare a lavorare con energia. In quel momento aveva, da maestro attento, parlato a me, di me, del rischio che correvo, citando le parole dirette da Ytrò al genero Moshe “navol tibol”, dalla radice naval ti seccherai, come per una foglia che appassisce. Molto più ampio l’insegnamento del brano, in quel momento avevo bisogno di sentire questa sfaccettatura. Il brano è un insegnamento sulla leadership. Ytrò, venuto a trovare Moshe, lo trova da solo intento a giudicare, a rispondere a tutti i problemi che gli venivano sottoposti, lo redarguisce dicendo (Scemot 18 17) lo tov adavar asher atta ose, quello che stava facendo era lo tov. Solo in un altro punto della Torà è scritto che qualcosa era lo tov, siamo in Bershit 2 18 quando QB dice lo tov ehiot adam levado per l’uomo essere solo. Sono due momenti di grande cambiamento.
In entrambi i casi il cambiamento nasce da una visione dall’esterno, non da un’esigenza personale.
In Bereshit nasce il rapporto con l’altro e l’altra, lo sguardo dell’altro e dell’altra, l’uomo non è più unico in terra, nasce la relazione tra umani, quando si parla di relazione non si hanno più due singoli individui, ma qualcosa di nuovo differente non dato dall’1 più 1. In Shemot Moshè sta amministrando da solo la giustizia, anche qui c’è il rischio del pensiero unico, dall’esterno Ytrò percepisce questo rischio, nasce un concetto diverso di gestione della giustizia non portata aventi da singoli, ma da una pluralità di giudici. Si può così creare una rete di relazioni in cui la Torà è vita, non solo oggetto di studio.
La Torà come vita era un pensiero caro al More Sciunnach zl questo corso ha, credo, portato un piccolo contributo.

Sara Cividalli

(22 maggio 2016)