Gorizia – A èStoria con Pagine Ebraiche
Dipendenza digitale: la nuova schiavitù
I temi della schiavitù digitale e della demenza digitale, i grandi rivolgimenti sociali che la diffusione massiccia della rete e delle nuove tecnologie comportano, sono stati al centro dell’apertura dell’ultima giornata del Festival internazionale èStoria di Gorizia che ha richiamato nella città isontina storici, ricercatori e studiosi impegnati quest’anno a riflettere sulle libertà civili e sulle loro devastanti negazioni. La redazione del giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche è stata protagonista con un dibattito dedicato agli effetti e ai veleni che rete e nuove tecnologie stanno producendo nelle mutazioni sociali di cui siamo testimoni. Accogliendo gli ospiti del dibattito, il direttore della redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Guido Vitale ha ricordato come la diffusione dell’odio in rete sia ormai divenuta uno strumento di costruzione del consenso sociale e politico e ha sottolineato come le intemperanze di improbabili candidati nelle più recenti consultazioni elettorali, con i loro segnali che richiamano negazione della Memoria e del rispetto della persona, abbia messo in luce una pericolosa carenza immunitaria della società civile cui è urgente porre riparo. L’utilizzo della rete e dei social network in attività distorta e strumentale attraversa ormai trasversalmente l’intera società e non vede immuni nemmeno le culture di minoranza che pure dovrebbero percepire come una forte minaccia l’utilizzo della demenza digitale e la costruzione del consenso di massa.
La sala piena è stata la prima dimostrazione del grande interesse suscitato dall’incontro, organizzato in collaborazione con ASSID, Associazione degli Studenti di Scienze Internazionali e Diplomatiche e Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia. Il titolo “δουλοι της τ χνης: la nuova schiavitù. La dipendenza tecnologica nella società contemporanea”
non basta a rendere la grande ricchezza degli interventi moderati da Vitale, a partire dall’analisi di due vignette pubblicate dal New Yorker. Datata la prima, pubblicata venticinque anni addietro e recentissima la seconda, sono stato il primo spunto per ripercorrere la storia del profonda cambiamento avvenuto nel nostro rapporto con le tecnologie e il mondo digitale, raccontato anche nel numero di Pagine Ebraiche attualmente in distribuzione. Nella prima, di Peter Steiner, pubblicata a luglio 1993 si vede un cane che, davanti a un personal computer dotato di connessione dice fieramente a un altro cane che lo osserva incredulo: “In Internet nessuno può sapere che sei un cane”. La seconda, firmata da Kaamran Hafeez parrebbe molto simile all’altra, ma seduto di fronte al pc c’è un essere umano – questa volta davanti a un portatile – e i due cani, gli stessi, sono a terra che lo osservano, e uno dice all’altro: “Ti ricordi quando in Internet nessuno sapeva chi tu fossi?”.
Quello che vuole la tecnologia, il testo del 2011 del guru dell’informatica Kevin Kelly (Codice Edizioni) che è stato solo il primo dei tantissimi libri e autori citati durante l’incontro, è stato il punto di partenza dell’intervento del professor Longo – emerito di teoria dell’informazione all’Università di Trieste che si occupa di comunicazione e delle conseguenze socioculturali della tecnologia. Un riferimento importante a partire dal titolo, che attribuisce alla tecnologia un’anima, una volontà, una coscienza che si sviluppa in modo quasi indipendente rispetto agli esseri umani. Cosa che dovrebbe sia interessarci che preoccuparci, ma che è solo il risultato di un processo originatosi molte migliaia di anni fa: l’uomo, sin dagli albori, fabbrica strumenti, che però hanno un effetto retroattivo sull’uomo, modificandolo profondamente. Fino ad arrivare all’epoca contemporanea, in cui “l’uomo con il computer” è cosa del tutto dissimile da “l’uomo senza il computer”. Già la nascita del linguaggio ha modificato l’essenza umana in maniera profonda, creando una sorta di intelligenza collettiva che serve a coordinare il clan, la tribù, attraverso azioni sociali, che senza linguaggio non potrebbero essere o sarebbero molto diverse. L’intelligenza collettiva, già con questo passaggio, ha iniziato a trascendere quella dei singoli membri avendo sull’intelligenza dei singoli effetti non sempre e non necessariamente positivi, portando non a uno stimolo positivo ma bensì a una limitazione dell’intelligenza individuale. La prima affermazione dell’idea che la vera vocazione del computer non sia tanto fare calcoli, impianti o governare banche dati ma connettere tra di loro gli esseri umani, fatta alcuni decenni addietro dal professor Fano, studioso eminente di fenomeni comunicativi, era molto audace per l’epoca, ma – ha sottolineato il professor Giuseppe Longo, “il computer in realtà non è altro che una ‘macchinetta’ che ci serve per collegarci a una grande placenta universale che connette le persone fra di loro, in una sorta di creatura planetaria. Con un tasso di stupidità che non potrà fare altro che aumentare”. La tecnologia, che ha uno sviluppo autoaccelerante, esprime le proprie potenzialità, sia negative che positive, in una maniera che è difficilissimo controllare, che in linea teorica trascende le volontà. “Ma alcuni, in particolare le organizzazioni, hanno più capacità e certamente anche più possibilità di controllarle”. Siamo di fronte a un processo progressivo di delega tecnologica, per cui non diamo più solo agli specialisti il compito di portare a termine quello che non siamo in grado di fare autonomamente, ma investiamo di grande responsabilità le macchine. E ogni volta volta che accettiamo questa delega perdiamo qualcosa, rinunciamo a mantenere una competenza, perdiamo il controllo. Il cervello umano ha sviluppato nel tempo due modalità di funzionamento: quella veloce, che ci ha accompagnato fin dagli albori dello sviluppo, è collegata alle strategie di fuga e di sopravvivenza, mentre nel corso dello sviluppo della civiltà, con l’evoluzione culturale – che è sempre presente, accanto a quella biologica – si è sviuppata una modalità lenta, e il cervello umano è diventato sempre più capace di fare considerazioni, riflessioni, di ponderare le situazioni e intraprendere azioni razionali, in un meccanismo della lentezza che ha affiancato e si è quasi sovrapposto alla velocità originaria. Oggi però la tecnologia ha imposto un ritorno alla velocità, e ci si aspetta una reazione rapidissima, a volte immediata, alal molteplicità di stimoli e messaggi, che dalla posta elettronica a whatsapp ci obbligano a una discrasia fortissima. Il contrasto fra velocità che ci richiede la tecnologia e la lentezza a cui ci ha portato lo sviluppo culturale porta spesso a una situazione di ansia che fa sentire inadeguati, e ci spinge ancora più alla delega. E – ha concluso il professor Longo – non va dimenticato che siamo arrivati a delegare alle macchine anche analisi, azioni e decisioni, un fatto estremamente significativo che può essere sia un male che un bene ma probabilmente più un male anche perché le macchine non sono necessariamente neutre: sono comunque costruite da qualcuno, in un certo specifico modo. È stato il professor Ubaldo Fadini, che insegna Filosofia morale presso l’Università di Firenze, a riprendere il discorso partendo da un’analisi dello sviluppo degli ultimi anni dal punto di vista dell’inquadramento filosofico, in un intervento articolato in tre fasi. L’essere umano, strutturalmente poco adatto a rispondere rapidamente agli stimoli, è costitutivamente carente, e come unico modo per fare fronte a questa povertà ha la possibilità di dare una risposta di carattere tecnico, in una modalità quasi di compensazione di una mancanza. La risposta può stare solo nella fantasia e nell’immaginazione, perché è la caratteristica che, opportunamente tarata socialmente, è quella che permette all’uomo di proseguire tecnologicamente. Citando Anders e la sua sensibilità di filosofo sociale progressivo, il professor Fadini ha poi affrontato il tema della vergogna prometeica, quel sentimento particolare che possiamo provare ancora oggi quando ci confrontiamo con risultati straordinari. In quanto soggetti protagonisti di ciò che poi qualifichiamo come progressione tecnologica gli esseri umani si trovano poi una situazione contraddittoria di inadeguatezza. Ma va ricordato che l’uomo è un essere naturalmente artificiale, è qualcosa di costruito, che evolve, cambia di forma e muta col passare del tempo. La rete, poi, spazio in teoria autenticamente democratico che non esclude nulla e nessuno, vive di dinamiche di inclusione, ma al confronto con pratiche di commercializzazione spinta diventa un vero e proprio patrimonio di pochi, e produttrice di ricchezza. Non è solo positivo neppure il rapporto tra soggetto e macchina, a partire dalla considerazione – fatta già molto tempo fa da Luciano Gallino, che aveva sottolineato il fatto che la tecnologia “mangia” lavoro. Nella dimensione del contemporaneo i confini fra tempo del lavoro e vita non lavorativa sono sempre più labili, la prima cosa che facciamo tornando a casa è accendere il computer o guardare nevroticamente lo smartphone per vedere cosa è arrivato. La progressione di tecnologie che sempre più invadono la nostra realtà ha portato a sostenere che “bucano la nostra pelle, entrano nei nostri circuiti neuronali, fanno corpo con noi”. Rispetto al nostro corpo vivo sono sempre più delle dinamiche pratiche di introduzione di tecnologie estremamente sofisticate a qualificarci – o squalificarci – come esseri naturalmente artificiali. E la domanda se ci qualificano o squalificano necessita di un supplemento analisi etico-politica, portando sempre più al centro del discorso il rapporto tra etica e democrazia. La lettura sociologica, affidata al professor Nicola Strizzolo, ricercatore in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università degli Studi di Udine, ha spostato il discorso dall’ambito filosofico, connettore interdisciplinare tra saperi agli studi della web society, in cui la sociologia è connettore interdisciplinare tra le pratiche dei saperi. Dalla relazione alla connessione, i saperi vanno a modificare le nostre vite in una catena di potenziali schiavitù tecnologiche. Dalle reti note come smart grid alla cloud dell’informazione, dall’energia ai big data è breve il passaggio al controllo delle informazioni relative alle identità individuali. Una interruzione di reti che in teoria erano nate proprio per proteggersi da attacchi nucleari ha nella realtà un effetto a cascata che può coinvolgere milioni di persone. Che si tratti di un’interruzione dell’energia elettrica o dei flussi del gas – avvenuti sino ad ora esclusivamente per problemi, incidenti, e mai per attacchi mirati – la realizzazione che non siamo attrezzati per far fronte a un’emergenza potrebbe non essere consapevolezza comune ma è già reale. Attacchi mirati, congiunti, potrebbero senza difficoltà mettere in ginocchio la parte più avanzata della civiltà, perché non siamo più in grado di vivere senza smart grid: se salta quella di New York d’inverno, per esempio, una buona parte della popolazione della metropoli è destinata a morire di freddo. Per gestire la realtà già esistente abbiamo bisogno di monitorare tutto quello che accade, immediatamente, per far funzionare, gestire, controllare le strutture su cui si basa la nostra vita quotidiana. Fino a non molto tempo fa il sociologo era colui che per ricostruire informazioni su una società doveva procedere a una raccolta di dati e a un campionamento. Ora i dati ci sono, sono disponibili. Ma se un dato è un oggetto neutro, si può definire come informazione è un dato che ha un valore, e i big data hanno sostituito il lavoro di migliaia di scienziati specializzati nella ricerca. Una cosa va ricordata: così come è importante la memoria, base di ogni identità, è anche importante dimenticare. Il diritto all’oblio, sancito dalla Comunità Europea, non ha solo una valenza tecnologica: la possibilità di dimenticare serve a sopravvivere, è una prassi biologica che salva da quel sovraccarico di fatti del passato che rende prigionieri, e ricattabili, mentre il passare del tempo cambia gli esseri umani, li rende diversi, e forse migliori.
Ada Treves twitter @atrevesmoked
(22 maggio 2016)