I due cani e la rete avvelenata
Talvolta una vignetta, soprattutto se appare sul prestigioso settimanale The New Yorker, fa la storia. E quando si parla di demenza digitale e di schiavitù digitale, così come la redazione del giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche si è ripromessa di fare aprendo l’ultima giornata in programma del festival èStoria di Gorizia, c’è da riflettere. Nel corso dell’incontro fra i giornalisti e i tre storici, sociologi ed esperti di storia dell’informatica Ubaldo Fadini, Giuseppe O. Longo e Nicola Strizzolo ci sarà forse il modo di parlarne ancora, ma nell’attesa del dibattito vale intanto la pena di raccontare la sua storia. Un cane, nella vignetta di Peter Steiner che apparve sul numero del 5 luglio 1993, quando il web era appena ai suoi inizi, si piazza davanti a un personal computer dotato di connessione e commenta tutto fiero a un altro cane che lo osserva incredulo: “In Internet nessuno può sapere che sei un cane”. Nelle classifiche stilate solo pochi anni fa la vignetta di Steiner risultava la più riprodotta in assoluto fra quelle pubblicate dal giornale e aveva fruttato al fortunato autore oltre 50 mila euro di diritti. Lo stesso autore raccontò in seguito stupito che all’inizio la sua vignetta non aveva attirato grandi attenzioni, ma che con il passare del tempo la sua popolarità era enormemente cresciuta, tanto da essere citata, studiata e considerata una pietra miliare da più parti. Il fatto è che la vignetta di Steiner colse, per un caso o per un’intuizione, l’attimo dell’entrata del web nella vita comune. Terreno di caccia esclusivo degli ingegneri informatici delle agenzie governative e delle istituzioni accademiche, il world wide web cominciava a divenire oggetto dell’interesse e del dibattito generale per l’opinione pubblica. Certo, nelle case di molti di noi un pc doveva ancora fare il suo ingresso e le connessioni, tutte immancabilmente affidate ai gracidanti modem di un tempo e alle linee telefoniche analogiche, erano ancora estremamente precarie e difficoltose, ma c’è sempre un momento in cui una mutazione sociale diviene irreversibile, e il momento fu quello. Il fondatore di Lotus Software e precoce attivista della rete Mitch Kapor avvertì con un editoriale apparso sul Time magazine qualche settimana dopo l’uscita della vignetta che l’interesse generale per quello che stava avvenendo sulla rete aveva ormai raggiunto la massa critica e il punto di non ritorno e che questo era testimoniato dall’apparizione della vignetta dei due cani.
Ma qual era il significato effettivamente attribuito alla vignetta? A prima vista il cartoon mette in rilievo la possibilità di agire nella rete sotto un’apparente copertura di anonimato. Nel suo studio “Code: Version 2.0”, Lawrence Lessing spiega che il “Nobody knows…” pronunciato dal cane parlante rappresenta compiutamente l’ebbrezza di potersi esprimere senza lasciarsi identificare. In questo senso il web era parso il territorio della compiuta libertà, dove il genere, gli orientamenti, l’aspetto, l’età, persino l’appartenenza alla razza canina non avrebbero più rappresentato una barriera alla libertà d’espressione o un pregiudizio nella valutazione delle idee altrui. Ma al tempo stessa la medesima libertà di agire nell’anonimato rappresentava sia la possibilità di oscurare un’identità sia di inventarne un’altra fittizia, perseguendo fini leciti o anche illeciti. E ancora, la libertà del cane di non dichiararsi, equivaleva alla libertà di accreditarsi senza averne titolo a una categoria superiore, quella degli esseri umani dotati di personal computer.
Le interpretazioni sociologiche che prendono spunto dalla vignetta del New Yorker si sono moltiplicate nel corso degli anni facendone quasi un’icona, un passaggio obbligato. Fino allo scorso anno, quando sullo stesso settimanale, il 23 febbraio del 2015, è apparsa una vignetta firmata da Kaamran Hafeez molto simile a quella di 22 anni prima. Questa volta seduto di fronte al pc c’è un utente rimbecillito e per nulla intenzionato a lasciare lo schermo (ormai ovviamente a cristalli liquidi) incustodito. I due cani, gli stessi cani, sono a terra e lo osservano. Uno dice all’altro: “Ti ricordi quando in Internet nessuno sapeva chi tu fossi?”. Nel passaggio fra una vignetta all’altra c’è tutta la nostra storia di questi anni. L’emersione dei social network, il rastrellamento selvaggio e indiscriminato di informazione personali, l’asservimento di masse incoscienti pronte ad alimentare con una valanga di contenuti per lo più futili e frammentari, se non volgarmente imbecilli, le casse delle aziende specializzate nel manovrare i consumi e le opinioni con l’utilizzo distorto dei social network. Oggi se un cane accede al web, chi lo deve sapere ormai lo sa benissimo. Nell’immenso flusso di espressioni affrettate e demenziali che portano incompetenti, irresponsabili ed esibizionisti a esprimere solennemente qualunque sciocchezza, viene seriamente minacciato il principio ebraico di esprimersi come se l’interlocutore si trovasse in nostra presenza. E non dilaga solo l’odio o il negazionismo che minaccia ogni cultura minoritaria e in particolar modo le realtà ebraiche e Israele. Ma trova spazio anche in ambienti ebraici la tendenza a mettere nero su bianco avventate espressioni di cyberbullismo e di cybermobbing, offese personali, vergognose manifestazioni di intolleranza che al momento opportuno chiunque fra gli addetti ai lavori potrà recuperare e utilizzare a proprio comodo.
La beata incoscienza dei due cani di un quarto di secolo fa è ormai solo un pallido ricordo. L’incontro a èStoria servirà a domandarsi se c’è una via d’uscita e, in ogni caso, con quale società futura dobbiamo prepararci a fare i conti, quale spazio sociale vogliamo lasciare ai nostri figli.
L.P Pagine Ebraiche maggio 2016
(22 maggio 2016)