Il giacimento a largo di Ashkelon – Tamar, risorsa da sfruttare

tamar gasVista dall’alto sembra un enorme fenicottero. Con la gru che si protende verso il cielo, 80 metri sopra la superficie del mare, i piloni d’acciaio che sprofondano nell’acqua, fino a 300 metri di profondità. Un corpo fatto di tubi grigi e rossi, ringhiere gialle. E come coda la pedana dove si posa l’elicottero. La piattaforma Tamar, a 27 chilometri al largo di Ashkelon, è la centralina del gas di Israele. Da qui passa il metano estratto a 150 chilometri di distanza: viene scaldato, filtrato, ripulito e inviato nel centro di stoccaggio sulla terraferma. E qui ci sono le manopole che regolano il flusso, a seconda della domanda di energia. Ma la Tamar, a metà strada fra Libano, Cipro, l’Egitto, è anche al centro della battaglia energetica nel Mediterraneo orientale. Una gara ad arrivare primi nello sfruttamento dei giacimenti che vengono scoperti uno dopo l’altro, e stanno facendo di questo spicchio di mare un nuovo Golfo del Messico. Israele ha, assieme all’Egitto, le maggiori potenzialità. È partita per prima ma rischia di rimanere indietro. Il giacimento di Tamar ha riserve per 250 miliardi di metri cubi, ne produce 8 miliardi all’anno e copre il consumo interno. Un secondo giacimento ancora da sfruttare, il Leviathan, 450 miliardi di metri cubi di riserve, ha le potenzialità per trasformare lo Stato Ebraico in esportatore. Non è semplice. In Israele il metano è anche una questione di sicurezza nazionale. Le leggi hanno favorito le compagnie locali , che però non hanno i mezzi e le competenze delle multinazionali. Il premier Netanyahu con un decreto – respinto poi in parte dall’Alta Corte per violazione dell’Antitrust – ha aperto agli stranieri. Una joint venture fra la texana Noble Energy e l’israeliana Delek Drilling ha fatto decollare il giacimento di Tamar. A bordo della piattaforma sono quasi tutti texani. La bandiera con una stella sola si vede sui giubbotti e nelle bacheche nei corridoi, nelle schermate di Facebook. Il cuore del complesso è nel piano abitato, simile all’interno di una nave. Corridoi, cabine per l’equipaggio, la mensa, sale riunioni. E il centro di controllo. È una stanza con tre grandi tavoli, una decina di computer, istruzioni appiccicate sulle pareti. “Possiamo gestire ogni singola valvola” spiega Elliott Parchmon, arrivato qui dopo anni nel Golfo del Messico. Per esempio, il gas passa lungo il fondo del mare e tende a raffreddarsi, al centro del controllo devono immettere e dosare un composto chimico, Meg, che evita il con gelamento. Anche il procedimento di filtraggio, separazione dalle parti liquide e raffinazione è gestito a colpi di clic. La Tamar deve regolare il flusso del gas a seconda della domanda del mercato israeliano, l’unico a cui è collegata. «La gestione della pressione è uno dei compiti più delicati» conferma Parchmon. L’altro grande nemico sono le perdite di gas e Parchmon gira con un apparecchietto al collo che rileva ogni minima anomalia. E c’è anche la «madre di tutte le valvole» in grado di chiudere il gasdotto in caso di incidente grave. O anche, scherza il texano, per qualche razzo in arrivo da Gaza, a soli 30 chilometri. L e misure di sicurezza sono un’ossessione, i comportamenti corretti ripetuti su pannelli esposti ovunque. Camminando sugli scalini in grate d’acciaio, con il blu del mare che si intravede a decine di metri sotto i piedi, si capisce perché. Il pericolo è a ogni passo. Per il settore energetico israeliano, invece, ci sono due sfide all’orizzonte. Una è trovare i 7 miliardi di dollari che serviranno a rendere operativo il giacimento Leviathan. L’altra è agganciarsi ai mercati esteri. Un’ipotesi è collegarsi all’Egitto. È vero che l’italiana Eni ha scoperto in acque egiziane il giacimento Zohr, 5 volte più grande del Leviathan. Ma per la Delek Drilling «the more, the merrier», più si è meglio è. Secondo uno studio della McKinsey, neanche Zohr coprirà il fabbisogno del Cairo nei prossimi anni. E a Damietta c’è un terminal sottoutilizzato. L e altre ipotesi sono agganciarsi alla Turchia o, via Cipro, alla Grecia. Sono più costose, ma secondo fonti diplomatiche potrebbe entrare in campo un’altra azienda italiana, l’Edison. Il tutto in attesa della decisione finale dell’Alta Corte sul decreto -Netanyahu. Senza un quadro legislativo definitivo difficilmente arriveranno investitori esteri.

Giordano Stabile, La Stampa, 17 maggio 2016