Un arrivederci
Dunque la vita di Marco Pannella si è spenta. Il suo approssimarsi all’ultimo, definitivo transito è avvenuto con dignità e consapevolezza, due qualità che oggi sembrano invece difettare ai molti. Non di meno, come già era capitato per persone che si erano riconosciute nelle battaglie del suo partito, quando ha registrato che per lui i “dadi erano tratti” una volta per sempre, ha deciso di rendere pubblico il suo progressivo approssimarsi vero l’altra riva. Lo ha fatto congedandosi da amici e compagni di lotta, da avversari leali e da interlocutori abituali. Per una parte del piccolo, vivacissimo, composito universo di lottatori civili, anche la propria morte può essere la circostanza, invero suprema, per rendere omaggio a quei principi ai quali si sono dichiarati fedeli. Ciò facendo, quasi a volere suggellare il presupposto insindacabile che prescrive che le esistenze possono transitare ma alcuni valori sono destinati ad inverarsi a prescindere da chi li fa propri, partendo il più delle volte da posizioni di assoluta minoranza.
C’è chi vedrà in ciò una sorta di eroismo senz’armi, mentre altri ne vorranno cogliere anche gli aspetti implicitamente legati all’ego soggettivo, ossia centrati sulla personalizzazione del messaggio politico e sulla sua incarnazione in un corpo e in un soggetto pubblico. Anche quando questo è malato o decadente o comunque declinante, poiché malattia, decadenza e declino sono parte integrate della vita, quindi non ne negano la dignità; semmai, piuttosto, la valorizzano in quanto insieme di cose uguali e contrarie, di opportunità e vincoli, di piacevolezze e di dolori, tutti da raccontare e non da celare, nascondere, omettere come se di una vergogna si trattasse. Il corpo di Marco Pannella, e di quelli della sua schiatta, ha a lungo parlato per le sue stesse idee, incarnandole quasi al limite della voluta provocazione. Un esibizionismo politico, quindi, da alcuni frainteso, da altri mal sopportato, da certuni invece profondamente apprezzato come atto di rottura rispetto alle rigidità di un circuito di organizzazioni, attori collettivi, istituzioni che sommergono il privato a favore di una dimensione pubblica dove l’anonimato dei tanti è la precondizione per dirsi in qualche modo cittadini, ancorché senza volto.
A prescindere dalle interpretazioni di merito, che dovranno prima o poi ricostruire la sua figura politica, collocando inoltre la traiettoria del suo partito dentro l’arco politico italiano dalla fine del lungo dopoguerra in poi, Pannella ha quindi evitato, in questi mesi, lo scempio dell’oscenità che, invece, il circuito massmediatico garantisce all’esibizione del dolore. Anche di questo gli deve essere dato atto: sapevamo che se ne stava andando, lui l’ha fatto stringendo le mani e salutando coloro che lo volevano incontrare ma ha impedito che la sua transizione verso un altro mondo divenisse un esercizio esibizionistico. Non la stessa cosa può dirsi, invece, di chi sopravvivendogli sta partecipando non al cordoglio ma alla gara del “coccodrillismo” e delle pelose laudationes in memoriam. Tant’è nei fatti, ad onore del vero, ma al punto che i comportamenti dei secondi nulla tolgono ai meriti del primo. Inutile quindi elencarli, se non rimandando al fatto che negli uomini come Pannella, autentici liberali (nel senso che identificano nell’individualità il punto di imputazione di un complesso ed articolato sistema di valori), l’attenzione per le minoranze, intese come parte di un più complesso mosaico culturale e sociale, da sempre non costituisce un elemento di corredo bensì la premessa per la costruzione delle relazioni sociali.
L’aggressiva, a tratti anche estenuante, battaglia sui diritti civili non può infatti prescindere da questo presupposto. Anzi, semmai se ne alimenta. Alcuni hanno voluto vedere in questo politico italiano un uomo visionario, anticipatore di tendenze e sensibilità altrimenti destinate a rimanere perlopiù ai margini delle trasformazioni che hanno interessato le nostre società. Ad esse, in altri termini, ha dato sostanza e corpo, prestando il suo volto a battaglie che molto si sono avvantaggiate del mutamento del sistema delle comunicazioni collettive, a partire dal sistema radio-televisivo. Per Pannella l’accesso mediatico era la condizione fondamentale per rendere tangibile, nel senso non solo di offrire visibilità ma anche di dare sostanza, a qualsiasi domanda collettiva. Non di meno, la personificazione del messaggio è stato un tratto imprescindibile della sua proposta politica, vivendo il disagio, a tratti quasi l’avversione, per i grandi partiti, concepiti come delle gabbie d’acciaio. Il nutrito microcosmo di soggetti che si sono raccolti di volta in volta intorno alla sua persona, e quindi alla formazione politica della quale era tra gli esponenti più significativi, ancorché non l’unico, hanno sempre guardato con una distanza che spesso è diffidenza quelle che un tempo non troppo lontano venivano chiamate “organizzazione di massa”. L’attenzione per le posizioni minoritarie derivava anche da questa diffusa e coltivata coscienza di essere (e per più aspetti di continuare a volere essere) minoranza sensibile. Gli elettori, a loro volta, gliene hanno dato atto: a fronte di una vasta eco su certe battaglie, è corrisposto un gradimento elettorale limitato. Proseguendo, a tale riguardo, sulla scia che già era stata tracciata dal liberalismo radicale nostrano, figlio dell’Ottocento rivoluzionario, di solido impianto borghese, transitato per l’antifascismo e poi confluito nell’esperienza, ben poco premiante sul versante dei voti, del Partito d’Azione come anche del Partito repubblicano. Non è un caso, quindi, che i radicali siano stati da non pochi apprezzati ma da molti non seguiti: nel conflitto perenne tra libertà e protezione, tra responsabilità individuale e tutela collettiva, i più scelgono il secondo capo del confronto, come se le cose fossero tra di loro alternative.
Anche per questa ragione Pannella è stato un liberale, sulla scia di autorevoli ed eterogenei predecessori e mentori, come Mario Pannunzio e “Il Mondo”, Ernesto Rossi e una parte del gruppo che già si era riconosciuto in “Giustizia e libertà”, così come Guido Calogero e un “insospettabile” Eugenio Scalfari. Altri, in maniera molto più critica, senza togliere nulla alla genuinità delle posizioni assunte, hanno voluto leggere nelle innumerevoli battaglie ispirate al “radicalismo” tout court, al liberalismo “oltre gli steccati” delle appartenenze precostituite, all’antiproibizionismo, alla critica delle gerarchie soprattutto se ordinate in clero, all’antimilitarismo ma anche contro un pacifismo monodirezionale così come alle lotte per l’affermarsi delle libertà sessuali, per la legalizzazione dell’aborto e quant’altro (l’elenco sarebbe decisamente lungo), il tutto sostenuto a fare dal 1956 in poi, un taglio decisamente più orientato in senso liberista. Laddove quest’ultima accezione rimanda al principio dell’autodeterminazione in chiave rigorosamente individualista e alla centralità dell’autonomia dei processi economici, dai quali dovrebbe scaturire l’autentico spazio delle libertà espressive e di relazione dell’individuo. Da qui l’accento contro la “partitocrazia”, un cavallo di battaglia introdotto nella seconda metà degli anni Settanta e poi proseguito nel tempo, la lunga campagna per la “giustizia giusta”, rivolta nei confronti della magistratura ma anche del concreto esercizio del potere giurisdizionale in Italia, la lotta contro il finanziamento pubblico ai partiti e il fenomenale ricorso allo strumento del referendum come forma di democrazia diretta, del pari ad una sorta di convocazione permanente. L’elenco, va ripetuto, è incompleto, non essendo peraltro questa la sede per esercitarsi in tale impegno. Di fatto l’elemento rilevante, ovvero coagulante di questi diverse battaglie, trasfusesi in molteplici stagioni politiche, rimane la sostanziale diffidenza di fondo nei confronti del ruolo dello Stato rispetto alle opzioni individuali, al loro articolarsi, al diventare patrimonio collettivo. L’attenzione ai diritti civili, quindi, collante del radicalismo italiano, si è spesso incontrata in maniera conflittuale con la questione dei diritti sociali. Gli uni non sono alternativi agli altri. Metterli in tensione se non, addirittura, in contrapposizione, è un errore marchiano. Ma non è meno vero che ciò che Marco Pannella ci consegna, non importa se perlopiù involontariamente o quanto – invece – consapevolmente, è il domandarci dove la progressione dei primi, in società sempre più differenziate e abitate da un irrisolto e problematico interculturalismo, si incroci con il mutamento dei secondi. Poiché l’individuo non è mai l’inverso della società ma quest’ultima non è una somma indistinta di “identici”. Fare identità è cosa diversa dal cadere nella trappola degli identitarismi. La solidarietà tra i molteplici, che si incontrano in base alle loro differenze e non a prescindere da esse, senza viverle tuttavia come esclusivismi, è allora l’orizzonte dal quale partire per ragione anche sul congedo consapevole di Marco Pannella da questa terra così come sul suo lascito. Al netto di ipocrisie, cinismi e false onoranze. Se invece gli esercizi retorici dovessero non negarsi a nessuno così facendo si negherebbe di certo la specificità irripetibile di quel qualcuno che adesso non c’è più.
Claudio Vercelli
(22 maggio 2016)