Un intervento controverso e la libertà d’espressione

Un recente scritto apparso su questo notiziario quotidiano e firmato dal neuroscienziato Alessandro Treves ha suscitato in alcuni lettori reazioni contrastanti e anche un misto di perplessità e fastidio. Nel notiziario appaiono gli interventi di Daniel Funaro, del gruppo Benè Binah, dei Consiglieri UCEI Victor Magiar e Raffaele Turiel, di Daniele Massimo Regard, della presidente della Comunità ebraica di Firenze Sara Cividalli e di Emilia Perroni, oltre ad alcune considerazioni del direttore della redazione giornalistica dell’Unione, ma anche la documentazione completa evocata da Treves nel suo controverso intervento.

Opinioni, libertà e limiti /1

In prossimità del rinnovo del consiglio Ucei del prossimo giugno bisognerà, necessariamente, svolgere una riflessione su come impostare il lavoro dei prossimi anni. A parer mio, si dovrà innanzitutto cercare di placare gli animi e le divisioni, volutamente portate avanti da qualcuno, che non fanno il bene all’ebraismo italiano. Ci sarà bisogno di un grande senso di responsabilità con cui affrontare i temi importanti la cui soluzione non può essere rimandata. Il primo è la comunicazione. Da parte mia penso che Pagine Ebraiche sia uno strumento grandioso a disposizione delle Comunità ebraiche italiane. Il fatto che un giornale possa arrivare a casa di ogni ebreo in Italia è un’opportunità a cui non possiamo rinunciare. Il tema però non riguarda il mezzo, ma la gestione. Pagine Ebraiche cos’è? Il giornale in cui il direttore decide cosa dire in base alle sue opinioni personali, la rassegna stampa del presidente Ucei o il giornale dell’ebraismo italiano? Ad oggi si può escludere con certezza che la terza opzione sia quella che rappresenta il giornale. Sulle rubriche vengono ospitati interventi in cui i nostri rabbini vengono offesi, in cui viene delegittimato Israele o in cui, come alla vigilia di Yom Hazikaron, un collaboratore decide di paragonare un ministro israeliano ad Hezbollah, movimento terroristico autore di attentati tragici come in Argentina e Bulgaria e responsabile della morte di tanti nostri soldati nella guerra con il Libano del 2006. Possibile che i nostri soldi servano per un mezzo in cui i collaboratori usano il termine “coloni” senza che il direttore di questo giornale o la presidenza Ucei si senta di chiarire che certe opinioni non rappresentano e non devono trovare spazio nel giornale dell’ebraismo italiano? Tra l’altro, non si può non sottolineare, che le uniche volte in cui il direttore ha sentito di prendere le distanze da alcuni articoli era perché l’autore dissentiva o dal presidente Ucei o da una scelta politica del giornale. Insomma, si può paragonare un ministro israeliano a un gruppo terroristico, ma non dissentire dalla linea Gattegna o di Pagine Ebraiche. In più, quelle volte si è anche limitata la visibilità dell’articolo sulla home di moked.it per diminuirne la visibilità, perché evidentemente crea più imbarazzo un confronto sano e pacato all’interno del mondo ebraico che le voci estremiste di chi paragona Israele ai terroristi. Questa è la situazione e da qui dobbiamo partire per trovare una soluzione. La mia è che questo giornale serva davvero per confrontarsi, stabilendo una linea di demarcazione ben chiara per non permettere che avvenga in casa nostra un tipo di propaganda che invece dovremmo combattere, aprendo però alle voci dell’ebraismo italiano che dissentono dal presidente o dalla giunta di turno.

Daniel Funaro

Opinioni, libertà e limiti /2

L’educazione ebraica poggia su alcuni pilastri fondamentali tra i quali il rispetto della diversità e delle opinioni personali. Il vivere la propria storia per l’acquisizione di una maggiore consapevolezza sia personale sia di identità collettiva è stato forse ciò che, insieme all’osservanza delle mizvot, ha permesso la sopravvivenza del nostro popolo nelle varie diaspore. Il primo elemento è sicuramente dibattuto in ogni società democratica che si rispetti e coinvolge gli argomenti più disparati. Ne abbiamo esempi quasi ogni giorno e spesso noi ebrei ci sentiamo chiamati in causa o ne siamo più o meno direttamente coinvolti. Il caso più eclatante di questi giorni è la legge ancora in discussione al Parlamento sul negazionismo, ma non è su questo che vorremmo soffermarci.
Vorremmo parlare di un tema più generale: la libertà di parola può essere infinita? Oppure bisogna porle dei limiti? E se sì quali, e fino a che punto? Siamo sicuri che queste domande susciteranno le opinioni più disparate, ma a nostro parere il dibattito non può mai sconfinare nell’insulto, nella calunnia e nella diffamazione.
Per questo, quando su un’opinione apparsa sul portale dell’ebraismo italiano, Moked, leggiamo Alessandro Treves paragonare il ministro Bennet e i coloni alle organizzazioni fondamentaliste di Nsrallah e ai suoi miliziani, che non esitano ad assassinare donne e bambini, considerandoli “emotivamente non distanti”, ci sentiamo in dovere di intervenire. Non per limitare la libertà di opinione, ma al contrario proprio in nome del rispetto di quelle libertà che troppo spesso gli esseri umani considerano infinite soltanto quando li riguardano personalmente, ed anche, più in generale, per evitare di cancellare quella capacità di distinguo che dà origine alle diversità di opinioni, che è solo una ricchezza.
Avere un giornale ebraico aperto al confronto è fondamentale; ed è per questo che non si deve invocare alcuna censura. Difendere questa impostazione, però, comporta responsabilità e richiede un’attenzione particolare ed un confronto reale. Per questo motivo scriviamo e rispondiamo a quanto pubblicato da Treves.
Rimanere in ascolto e disposti al confronto, inoltre, presuppone sensibilità anche rispetto alle giornate nelle quali i “pezzi” vengono pubblicati; presuppone cioè attenzione all’insieme dei temi trattati nella medesima giornata. Se un articolo con una posizione così forte (e per noi non condivisibile) come quello di Treves viene pubblicato nella giornata di Yom ha-zikaron, senza che siano presenti ulteriori articoli, quelle parole genereranno ancora più il dolore. Per questo chiediamo non di fare tacere chi le ha scritte, ma di non rendere quelle parole talmente uniche da fare tacere il dolore di chi il terrorismo lo ha dubito e subisce ogni giorno.
Il secondo elemento che ci sembra fondamentale ricordare e che desidereremmo si tenesse sempre presente quando si racconta una società complessa e variegata come è l’ebraismo, è l’educazione dei giovani. Essa passa attraverso, come dicevamo poc’anzi, il vivere assieme, ma anche il rivivere ciò che i nostri antenati hanno attraversato. Il nostro popolo ha sempre dato molto valore all’identità collettiva e perfino nazionale, senza tuttavia scadere nella presunzione di superiorità, nel razzismo e nell’annullamento delle identità altrui. E’ così durante il Seder di Pesach ed è così, parimenti, nei viaggi ad Auschwitz dei nostri giovani, sia israeliani sia europei. Le visite ai campi di sterminio, istituite diversi anni fa e peraltro lodevolmente promosse in periodi più recenti anche dai vari Ministeri dell’Istruzione del nostro continente, non sono volti ad infondere un senso di superiorità (o di colpa nel caso dei ragazzi cristiani, musulmani, atei o buddisti che siano), ma a far “toccare con mano” ciò che in tanti, sempre troppi, ancora oggigiorno vorrebbero negare. Offrire supposizioni superficiali sul tema, senza approfondire e spiegare come meriterebbe, non solo rischia di produrre materiali a beneficio di detrattori ed antisemiti dilettanti, ma fornisce informazioni distorte perché decontestualizzate. Estrapolare brani di articoli su quotidiani senza fornire elementi del contesto e del dibattito che circonda un fatto, è foriero di confusione e al peggio non aiuta nella comprensione di una realtà tanto varia e complessa quanto quella israeliana.

Gruppo Benè Binah

(Noemi Di Segni, Fabrizio Benigno, Sabrina Coen, Fabiana Di Porto, Ivan Fellus, Jacqueline Fellus, Davide Jona Falco, Lawrence Y. Kay, Elena Lattes, Roberto Lehmann, Ariela Massarek, Saul Meghnagi, Silvia Mosseri, Simona Nacamulli, Eva Ruth Palmieri, Daniela Pavoncello, Sandro Sermoneta, Giuditta Servi, Gioia Spizzichino, Claudia Tedeschi, Manuela Terracina, Tamara Zarfati)

Opinioni, libertà e limiti /3

Ho provato un vero fastidio qualche giorno fa nel leggere su Moked – il portale dell’ebraismo italiano l’articolo del Alessandro Treves.
So bene che il nostro neuroscienziato – ben reputato in campo internazionale, conoscitore della realtà di Israele, già addetto scientifico all’Ambasciata italiana in Israele – ha costruito un articolo partendo da quanto affermato da istituzioni e quotidiani israeliani ma, nelle conclusioni, con un vezzo tipico di certi intellettuali nostrani, ha generato un sillogismo surreale e insultante.
Istituzioni e quotidiani israeliani, ci racconta lo scienziato, si domandano se i viaggi della Memoria abbiano sui giovani israeliani un effetto positivo, educativo, o al contrario generino effetti “traumatizzanti” e/o “sciovinisti”.
Incredibilmente, da queste considerazioni iniziali si approda a delle conclusioni assolutamente avulse, estranee, lontane dal presupposto: un giudizio sull’emotività (roba questa si degna di un veggente) ed in particolare sull’emotività del ministro israeliano Naftali Bennett e di Hassan Nasrallah, leader di Hizbollah, e (naturalmente!) anche dei loro rispettivi seguaci.
Ma qual è il nesso logico/strumentale che permette di saltare da Auschwitz ed arrivare alla psiche di Bennett? Ah, certo, Bennett è il ministro dell’educazione ed è questo il ministero che organizza i viaggi della Memoria! Bennett, ci spiega lo scienziato, sarebbe entusiasta di questi viaggi, ma non per l’esperienza formativa offerta ai ragazzi, piuttosto perché questi viaggi sarebbero “un’importante componente pre-militare del suo programma di rafforzamento dell’identità ebraica”.
Francamente ho vacillato nello sforzo di comprendere in che consistesse questa “componente pre-militare”, ma poi sono stato illuminato dalla successiva considerazione di Treves che (con un salto logico stupefacente) ci spiega che Bennett nutre la “speranza, che i morti rafforzino la determinazione a combattere nei vivi, e impongano la leadership di chi mostri di più flettere i muscoli”.
Insomma, Bennett manderebbe con entusiasmo i ragazzi israeliani ad Auschwitz affinché ritornino più combattivi (la componente pre-militare) e amanti di leadership muscolose (ovvero Bennett): è ridicolo, è insultante.
È un insulto alla Memoria, ai Sommersi, e a tutti coloro che vanno ad Auschwitz per formare coscienze libere e democratiche, che siano ebrei o no.
Ed è anche ridicolo: sostenere che la memoria dei morti rafforzi nei vivi la determinazione a combattere è un fatto certo, universale. È così per tutti, per tutti i popoli e in tutti i tempi. Ma non serve andare fino in Polonia per imparalo o per insegnarlo: lo facciamo a casa nostra tutti i giorni, tutti noi, ebrei e non, quando passiamo sotto i metal detector degli uffici pubblici, dei musei, degli aeroporti… o ricordando i caduti della Resistenza o le vittime del terrorismo.
Inoltre, così come non è vero che i ragazzi israeliani hanno bisogno di andare ad Auschwitz per sapere che si devono difendere (lo sanno già benissimo), non è vero anche che la conseguenza di questa consapevolezza porti a scegliere leader muscolosi: è storicamente falso.
Roba da far bollire il sangue se non fosse che, dulcis in fundo, l’approdo psichico dell’articolo ha fatto cadere il tutto nella farsa, arrivando a inventare un parallelo fra la “emotività” di Bennett e quella di Nasrallah.
“Bennett e i suoi coloni – scrive Treves – non sono emotivamente tanto distanti da Nasrallah e dai suoi miliziani”. Insomma, esiste un parallelo! I due si somigliano! In fondo sono uguali!
Ma siccome non sarebbe credibile un tale paragone sul piano politico, allora si inventa un parallelo sul piano psichico, emotivo: dall’incredibile al ridicolo.
Ho provato vero fastidio perché, sebbene abbia imparato a sopportare le strumentalizzazioni e le forzature su questioni di carattere politico, non riesco ancora a sopportare che si possano usare Shoah e la memoria dei morti per penose e ridicole polemiche verso dei politici.
Ho provato fastidio anche per un altro motivo: abbiamo inventato Moked – il portale dell´ebraismo italiano per far crescere l’ebraismo italiano, non per deriderlo. Abbiamo pensato ad una vetrina delle nostre idee, quelle “ufficiali” e un po’ ingessate delle istituzioni e quelle indipendenti e libere dei singoli iscritti.
Ogni quotidiano ha una sua linea editoriale e culturale, e quella del nostro giornale è la più semplice del mondo: libertà e qualità … ma dov’è qui la qualità?
Criticare un politico israeliano è lecito, anche sul nostro quotidiano online, ma con argomenti reali: non si possono pubblicare tesi psichedeliche, che magari (come in questo caso) evocano un immaginario e tesi a noi tristemente note, come la tesi della strumentalizzazione israeliana della Shoah per fini bellici, o quella della retorica della morte per generare uno Stato militarista.
Occorre che il direttore ridefinisca le linee guida per collaboratori e professionisti e che eserciti un vero ruolo dirigente nella selezione degli articoli, evitandoci per esempio anche i predicozzi che ogni tanto qualche collaboratore ci propina.
Se non c’è una direzione, se non c’è qualcuno che dirige, allora non serve un direttore.
Immagino già che qualcuno interpreterà questo mio intervento come un tentativo di limitare la libertà d’espressione: no, chiedo solo un po’ più di responsabilità da parte di chi deve avere responsabilità.
Immagino pure che qualcuno avanzerà qualche parallelo emotivo, psicologico, tra me e qualche altro personaggio pubblico: personalmente opterei per Marx, Groucho.

Victor Magiar, Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

Opinioni, libertà e limiti / 4

Su questo notiziario è apparso un testo di Alessandro Treves dal titolo “Tempo scaduto?” che disserta di educazione, odio, ultranazionalismo arrembante, a cavallo tra il Libano e Israele.
L’opinionista ci propone un collage di opinioni, alcune delle quali appena accennate, che valgono a rappresentare un parallelo: qualcosa si muove nel mondo dei nemici di Israele, riferendo del supporto di un comitato consultivo alla richiesta del ministro dell’Educazione libanese di eliminare nel curriculum scolastico la definizione di Israele quale” unico nemico del Libano” (salvo aggiungere che non è dato sapere se questa vicenda abbia avuto un seguito). In Israele, invece, il cima si farebbe progressivamente cupo.
Il tema della disaffezione nei riguardi dei viaggi scolastici ad Aushwitz, viene ricondotta ad un insieme di fattori tra i quali spiccano i costi del viaggio per le famiglie, l’ultranazionalismo e la delegittimazione dell’ altro, secondo l’ opinione del Preside del Gymnasia Herzlyia, per il quale è, evidentemente, preferibile che i viaggi della memoria cessino. In tutto ciò, gioca un ruolo l’atteggiamento progressivamente invadente del Ministero dell’Istruzione, nell’ attuale gestione di Naftali Bennet, leader del partito Habayt Hayehudi. L’entusiasmo del ministro per questi viaggi, volti al rafforzamento dell’identità ebraica, è definito dal Sig. Treves espressione di una componente “pre-militare” del suo programma educativo.
Sin qui la sintesi dell’articolo alla cui lettura integrale rinvio i lettori.
Nulla di nuovo per chi segue il dibattito in Israele sul rapporto tra modelli educativi della scuola pubblica israeliana e la progressiva perdita di coscienza in tema di identità ebraica. Un tema aperto rispetto al quale Treves porta alla nostra attenzione unilateralmente il punto di vista di parte della sinistra laica israeliana.
C’è chi pensa, al contrario, ed io sono tra quelli, che la politica di rafforzamento dell’identità ebraica nelle scuole pubbliche sia una iniziativa positiva del ministro Bennet che si propone di ridurre la distanza che separa l’educazione nelle scuole pubbliche e non, per arginare un fenomeno preoccupante di non conoscenza delle nostre origini e costruire una comune base di consapevolezza per le nuove generazioni.
I viaggi della memoria hanno senso se sono oggetto di formazione ed istruzione preventiva ed il recupero di questi valori, secondo la mia opinione, non ha granché a che fare con l’ultranazionalismo di questo o quel ministro e, mi preoccupa, francamente, la “cauta” opinione del Preside israeliano che ritiene preferibile abolire i viaggi, piuttosto che gestirli, per tema che rafforzino le tendenze ultranazionaliste (?!).
Ma, se il reale obiettivo dell’opinionista è la demonizzazione di un avversario politico, il Bennet ministro e colono diventano tutt’uno, e allora ha senso rivestire un tema realmente critico, la perdita di identità ebraica, di significati impropri sino a svalutare il significato dei viaggi della memoria al livello di mero strumento propagandistico della destra israeliana.
Vengo al punto. È certamente lecito che Moked ospiti contributi di opinionisti “schierati”; si tratta semmai di andare oltre, a mio avviso, prendendo atto della criticità di un tema, per come viene esposto, e ricercare attivamente chi possa argomentare differentemente, offendo ai lettori la possibilità di formarsi una opinione completa attraverso la lettura di opinioni divergenti.
Quel che non è ammissibile, sulle pagine di un media istituzionale che rappresenta tutte le anime dell’ebraismo e viene letto anche al di fuori, è dare spazio a chi, come Alessandro Treves, scrivendo che Bennet e Nasrallah “non sono emotivamente tanto distanti”, accosta un nostro correligionario israeliano, deputato e ministro, Naftali Bennet, ad un assassino terrorista quale Nasrallah, al vertice di Hetzbollah, varcando palesemente i limiti che ci dobbiamo porre in termini di recepimento del diritto di critica sui nostri organi di informazione.
Per Nasrallah e Bennet, protagonisti negativi del proscenio Mediorientale, il tempo sarebbe scaduto, sempre secondo Treves. Non è dato sapere su quali basi si fondi questa sorta di anatema (che mi auguro si avveri presto per il terrorista), ma mi piace pensare che il tempo sia scaduto per i contributi di questa sorta sulle nostre testate. Nell’interesse di un dibattito civile e moderato al nostro interno.

Raffaele Turiel, Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

Opinioni, libertà e limiti / 5

Manca poco più di un mese alle elezioni per il rinnovo del consiglio dell’Ucei. È iniziata una campagna elettorale che per il momento mi pare corretta e aperta al dialogo. Sono tanti i temi che andranno affrontati, ma personalmente vorrei fare una piccola riflessione su due argomenti che ho particolarmente a cuore e che credo sia giusto analizzare con molta attenzione: giovani e comunicazione.
L’ebraismo giovanile italiano sta attraversando un periodo particolarmente complicato. In tanti sono partiti per motivi di studio o lavorativi verso Israele, emigrazione dovuta più che altro alla crisi economica e al crescente antisemitismo. Si fa più fatica ad aggregare ed è sempre più difficile trovare, nelle nuove generazioni, persone che abbiano voglia d’impegnarsi in ambito comunitario. Partendo da questa fotografia credo che il prossimo consiglio Ucei dovrà affrontare prima di tutto questo problema, non per evitare le alioth, assolutamente legittime, ma valorizzando i giovani che restano, farli sentire al sicuro, supportati e mai abbandonati; tutelati nelle Università, nella ricerca di un’occupazione e coinvolgerli nelle attività comunitarie. Altro tema è quello del ricambio generazionale nella classe dirigente. L’Ucei dovrà formarne una nuova, non solo giovane (ahimè non basta), ma soprattutto capace di affrontare le tante sfide che ci attendono. Ho scelto di candidarmi proprio per quello che ho appena scritto, una scelta coraggiosa ma necessaria. Abbiamo in programma un incontro con i giovani della Comunità Ebraica di Roma non solo per parlare della strategia della nostra lista ma per ascoltare quali siano le vere necessità e che cosa si aspettino dalla più rappresentativa istituzione ebraica italiana i nostri ragazzi.
Personalmente sono convinto che l’Ucei, come ho già detto, avrà il compito di valorizzare le competenze, favorire lo scambio di idee creando un vero network nazionale anche in collaborazione con l’Ugei; mi piacerebbe vedere consiglieri dell’unione che interagiscano con i gruppi locali delle varie Comunità per capire quali siano le loro anche se piccole esigenze. Vorrei che nel prossimo consiglio ci siano persone ma soprattutto idee valide, da qualunque lista vengano. Se ci sarò io o un altro giovane a rappresentare quel famoso ricambio farà davvero poca differenza, l’importante è che ci sia impegno e che si remi insieme e soprattutto nella stessa direzione.
Passiamo al tema della comunicazione: è di queste ore la polemica scaturita dal paragone che ha fatto Alessandro Treves tra il ministro israeliano Bennet e i coloni con un’organizzazione terroristica come Hezbollah. Fuori luogo, inappropriato, vergognoso, inutilmente provocatorio, potrei usare tanti aggettivi per commentarlo, ma questo è un esempio che ci porta a una domanda fondamentale: qual è il confine tra libertà d’espressione e disinformazione su Moked e Pagine Ebraiche?
Cosa deve cambiare?
Io penso che sito e giornale dell’Ucei debbano essere specchio dell’ebraismo italiano, ma devono esserlo anche di quello che rappresenta Israele, la storia, la cultura. Un mezzo di controinformazione che dia voce a tutti, nei limiti però della corretta informazione. Il paragone sopracitato purtroppo non è nulla di tutto questo; criticare è legittimo, necessario delle volte, ma la critica dev’essere fondata sulla verità. E nessuno si azzardi a chiamarla censura perché rifiutarsi di pubblicare il commento di Treves sarebbe stato un gesto doveroso e di lealtà nei confronti di quello che questi mezzi d’informazione rappresentano.
C’è un però, c’è sempre un però. Non ammetto che questa polemica e gli errori (umani) che sono stati commessi in passato siano usati in senso partitico e come scusa per smontare tutto quello di buono che è stato fatto da Guido Vitale e i suoi collaboratori. Un conto è criticare e correggere (come nel caso Treves) un conto è demolire. Concludo con un piccolo appello a tutte le liste: cerchiamo di avere uno spirito costruttivo. Abbiamo tante sfide da affrontare, dobbiamo farlo insieme, uniti per il bene dell’ebraismo italiano.

Daniele Massimo Regard

Opinioni, libertà e limiti / 6

Caro Alessandro, ho provato a telefonarti, mi ha risposto una segreteria telefonica in ebraico e ho riattaccato.
Ho letto il tuo articolo che ha suscitato tante polemiche, polemiche che non condivido affatto. Sono reduce dalla lettura del libro di Wlodeck Goldkorn Il bambino nella neve. Anche questo un libro che non tutti approveranno e che ho trovato terribilmente bello.
Purtroppo non ho la competenza per rispondere pubblicamente sulla situazione politica e sociale israeliana, non saprei rispondere a quasi la totalità delle obbiezioni che verrebbero fatte. Penso, però, che la libertà di espressione delle proprie idee sia un bene a cui non possiamo rinunciare e che il giornale dell’ebraismo italiano ha il dovere di rappresentare le idee di tutti, purché non espresse in maniera offensiva. Il fatto che in Israele ci siano idee differenti, anche molto contrarie al governo in carica, sembra quasi che non possa riproporsi nella realtà italiana e che le posizioni non allineate siano un’offesa all’amore che tutti, coniugato in differente maniera, abbiamo per lo stato d’Israele. Non esiste una sola verità e la verità si può leggere in più modi.
Shalom

Sara Cividalli, presidente Comunità ebraica di Firenze

Opinioni, libertà e limiti / 7

Scrivo da Israele per complimentarmi alla redazione dei vostri giornali.
Sono psicologa clinica, pubblicista e attivista nel campo dei diritti umani. Sono nata a Roma e da più di 40 anni vivo a Gerusalemme. Seguo oramai da diversi anni Pagine Ebraiche e i notiziari online che pubblicate, e questo mi permette, come a molti residenti in Israele o all’estero, di seguire quello che succede nel mondo ebraico in generale e in quello italiano in particolare.
Spesso ho letto con rammarico la pubblicazione di scritti che esprimevano solamente alcune posizioni unilaterali. E` per questo motivo che mi fa molto piacere leggere gli articoli del professor Alessandro Treves in cui sono riportati con molto tatto alcuni paragrafi del giornale Haaretz, dando in tal modo la possibilità al lettore di conoscere interpretazioni diverse della realtà israeliana.
Haaretz è notoriamente un giornale molto serio, profondo e coraggioso: non solo non teme la critica ma la incoraggia. La critica e forse l’arma più importante di ogni società democratica (…).
Naturalmente ho letto anche le reazioni all’articolo di Treves e ho molto apprezzato la risposta dei direttore, una risposta risoluta e decisa nel non operare alcun tipo di censura sulla stampa. Essere esposti ad idee diverse a volte può irritare, ma principalmente stimola il pensiero, il dibattito e la coscienza.
I miei ringraziamenti, quindi, a voi, per la vostra disponibilità e per il vostro coraggio nel non cedere a quelle pericolose forme di intolleranza e di fondamentalismo, le quali si sono ultimamente insediate anche nel mondo ebraico. Dobbiamo tutti ricordare che la particolarità dell’ebraismo Italiano e` stata da sempre la sua moderazione e la sua apertura ai dilemmi e ai dibattiti. Sarebbe un peccato non mantenere tale tradizione.

Emilia Perroni, Gerusalemme

I livelli di guardia e i valori in gioco

Un recente scritto apparso la scorsa domenica su questo notiziario quotidiano e firmato dal neuroscienziato Alessandro Treves ha suscitato in alcuni lettori reazioni contrastanti e anche un misto di perplessità e fastidio. Comprendo questi sentimenti perché sono in parte gli stessi che ho provato assieme ai colleghi della redazione al momento della pubblicazione.
La maniera di vedere i problemi espressa dall’autore è quanto mai distante dal mio modo di vedere e spero non sia ancora necessario ripetere, perché tutti i lettori se lo sentono ribattere quotidianamente e più volte al giorno, che l’ente editore “sviluppa mezzi di comunicazione che incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili”. Del resto, pubblicando migliaia e migliaia di diverse opinioni ogni anno, non si vede come potrebbe essere altrimenti.
Nel corso di questi anni di lavoro la redazione si è impegnata per offrire all’ebraismo italiano gli strumenti di informazione e di dialogo che non c’erano. Sono stati pubblicati decine di migliaia di solidi articoli, inchieste e interviste che molto raramente sono dispiaciuti a qualcuno. E sono state ospitate decine di migliaia di libere opinioni che talvolta, come è normale che sia, non piacciono a tutti.
Sta di fatto che l’onesto e generoso pensiero di tanti collaboratori, pure se talvolta davvero irritante e non condivisibile nei contenuti, ha in definitiva contribuito a costruire mezzi di comunicazione credibili e solidi, rispettati e influenti. E ha contribuito a far sentire a casa tutti coloro che ritenevano di avere qualcosa da dire, cittadini del composito territorio comune dell’ebraismo italiano senza soffrire dell’esclusione.
Qui gli ebrei italiani che lo desiderano possono infine parlare liberamente con gli altri, e non solo limitarsi a parlare al vuoto. E qui capita talvolta di pagare il prezzo di ascoltare cose che non si vorrebbero ascoltare.
In una delle rarissime occasioni in cui mi permetto di annoiare il lettore, ho recentemente messo in guardia, del resto, su come il proliferare incontrollato di opinioni su tutto e su tutti, sia una pericolosa patologia dell’ebraismo italiano. La produzione quantitativa di opinioni, e di opinioni sulle opinioni altrui, e di opinioni sulla possibilità degli altri di esprimere un’opinione, ha raggiunto un livello di guardia e rappresenta una triste dispersione d’energie che potrebbero essere meglio impiegate. Non è questo l’esempio che abbiamo ricevuto in eredità dalle generazioni che ci hanno preceduto. Abbiamo un retaggio di lavoro e non di chiacchiere da onorare. E questo dilagare di parole e di giudizi spesso infondati rischia di squalificare l’ebraismo italiano, annoia il lettore e intralcia il lavoro dei giornalisti professionisti, che certo devono assumersi la responsabilità di tutto quello che si pubblica, anche di quello che non condividono, ma dovrebbero mantenere serenamente al centro del loro impegno quello di fare il proprio lavoro con coscienza e passione.
La mia intenzione, di conseguenza, è innanzitutto scusarmi con i lettori che si sono sentiti legittimamente a disagio.
Ma è contemporaneamente anche necessario ristabilire la realtà dei fatti, perché una critica, per essere credibile, deve essere misurata e priva di secondi fini. E dal dissentire al pretendere che qualcuno non abbia diritto di esprimersi, il passo mi sembrerebbe assai imprudente.
Sta di fatto che in uno scritto molto denso di riferimenti, e a tratti forse anche difficile da cogliere nelle reali intenzioni dell’autore, Treves cita notizie apparentemente incoraggianti apparse sulla stampa libanese, un ampio e interessante dibattito scaturito in Israele a proposito dell’effettiva utilità dei viaggi ad Auschwitz delle scolaresche israeliane e infine, incautamente e provocatoriamente, sembra adombrare un improponibile parallelo fra alcune espressioni di componenti dell’Esecutivo israeliano e le logiche delle organizzazioni criminali islamiche di Hezbollah che infestano il Libano e minacciano la sicurezza delle popolazioni vicine.
Una miscela per nulla condivisibile e certo viziata dal gusto della provocazione di chi, come questo collaboratore, vive profondamente immerso nella realtà israeliana, legge agevolmente l’ebraico e ha accesso a fonti privilegiate.
Treves infatti non è solo un ebreo italiano ben conosciuto, che ha figli ebrei solidamente inseriti nelle scuole israeliane e che a Israele ha dedicato passione e competenze. E’ anche un profondo conoscitore della realtà di Israele e della lingua ebraica, è Consigliere di una Comunità ebraica italiana, ha alle spalle il successo di un impegno nel mondo diplomatico come Addetto scientifico all’ambasciata italiana in Israele, è uno stimato scienziato italiano ben reputato in campo internazionale, da Oxford a Gerusalemme.
Ora, pur condividendo il disagio causato da alcune sue espressioni, mi dispiacerebbe se nella fretta alcuni lettori facessero scadere il proprio legittimo dissenso in una scomposta invettiva, o peggio ancora in una tentazione censoria. Così come sarebbe penoso se emergesse che chi desidera contrapporsi a questo scritto fosse mosso non tanto dal desiderio di affermare una visione più equilibrata delle cose, ma dalla pretesa di nascondere agli occhi del lettore italiano gli importanti argomenti sollevati in questa occasione e in particolare il coraggioso dibattito sulla Memoria in atto nella società israeliana.
Per questo motivo, proprio sul dibattito in corso in Israele sulla Memoria, questa redazione ha pubblicato lo scorso venerdì nel notiziario settimanale Sheva Melamed dedicato ai temi della scuola e dell’educazione un servizio molto completo ed equilibrato. I lettori che hanno anteposto il desiderio di conoscere alla fretta di giudicare hanno trovato maggiori motivi di comprensione che nel controverso editoriale in questione. Ma si sa, la conoscenza costa qualche fatica, la polemica è sempre la strada più breve.
Per questo motivo ho deciso di offrire al lettore ulteriori spunti di riflessione, anche pubblicando qui di seguito in versione inglese, e nei prossimi giorni nella traduzione italiana, i testi integrali degli scritti che stanno alla base del commento di cui stiamo parlando.
Dissentire, insomma, a condizione di sapere di cosa si parla, è salutare. Degradarsi nella tentazione di impedire agli altri di esprimersi, e farlo ancora prima di aver approfondito l’argomento, non lo sarebbe affatto.
Ristabilire la realtà e pretendere il dovuto rispetto per i componenti del governo di Israele, dell’unica, minacciata democrazia del Medio Oriente, è necessario. Ma trattare il lettore italiano come un minorato che deve essere tenuto all’oscuro dal dibattito vivo, a volte molto duro e a volte estremo, di cui la società israeliana è ricca, non sarebbe solo un’offesa all’intelligenza di ognuno. Sarebbe anche il peggior modo di rendere omaggio a quello che in fondo, al di là delle diverse sensibilità, sta a cuore a tutti noi: la lezione di tolleranza e di rispetto reciproco che ci è stata tramandata di generazione in generazione e l’incessante scuola di democrazia che ci viene dalla collettività di Israele.

gv

I docenti libanesi non vogliono insegnare ai loro studenti l’odio, le scuole dovrebbero essere neutre politicamente, e la posizione su Israele rivista

Il curriculum scolastico libanese, in cui tradizionalmente Israele è indicato come l’unico nemico del paese, è in questo periodo sottoposto a una revisione, dopo che molti insegnanti hanno chiesto al ministero dell’Educazione di adoperarsi in tal senso, scrive il giornale quotidiano di Hezbollah Al-Akhbar.
Gli insegnanti libanesi hanno dichiarato che “non vogliono proiettare la politica nel sistema educativo, che dovrebbe essere neutrale e non soggetto alle posizioni politiche”.
“Non vogliamo educare i nostri figli all’odio – hanno aggiunto gli insegnanti – anche se il nemico (Israele) occupa la nostra terra, viola la nostra sovranità e controlla i nostri confini”.
Il Centro per l’educazione e lo sviluppo, ente nazionale del ministero dell’Istruzione, ha organizzato diversi incontri sugli obiettivi del programma scolastico libanese. Alcuni esponenti di un comitato curricolare per lo studio delle lingue arabe in tale circostanza hanno espresso la loro contrarietà all’inserimento del concetto di “animosità contro l’ente sionista oppressore” nel curriculo. Inoltre, un professore dell’università americana di Beirut ha sostenuto che nel curriculo sia inserita una nota sulla lotta che il Libano sta conducendo contro “l’estremismo religioso che minaccia gli Stati arabi”.
“Noi educatori – così è stato citato il professor Waddah Nasr dell’American University of Beirut – dobbiamo avere abbastanza coraggio da focalizzarci anche sugli aspetti positivi della personalità umana. Non concentriamoci solo sul sionismo, abbiamo un elenco di priorità, comprende anche il modo di affrontare l’estremismo politico e religioso che minaccia l’area araba e l’atteggiamento settario che è radicato in noi”.
Sull’altro versante i sostenitori di Hezbollah alla Lebanese University sono contrari a ogni cambiamento nella definizione del nemico, secondo il report. Credono che gli studenti debbano sapere chi è il vero nemico e debbano essere educati in tal senso.
Perché gli israeliani si rifiutano di mandare i propri figli in gita scolastica ad Auschwitz. I critici ne danno responsabilità al trauma emotivo inflitto agli adolescenti, al costo imposto ai genitori, e al messaggio nazionalista che passa a scapito dei valori universali.

(YaLibnan – 8 aprile 2016)

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Citando il clima sociale, un liceo israeliano ferma i viaggi annuali in Polonia

I viaggi servono a delegittimare l”altro’ in un’atmosfera ultranazionalista, afferma il preside del liceo.

Una scuola superiore di Tel Aviv non manderà più delegazioni annuali a visitare i campi di sterminio in Polonia. Zeev Dagani, il direttore del Liceo Gymnasia Herzliya di Tel Aviv, ha annunciato la scorsa settimana la sua decisione dopo essersi consultato con i membri del consiglio scolastico e del comitato dei genitori.
Attualmente, la maggior parte delle scuole superiori israeliane organizza viaggi in Polonia, ma non tutti gli studenti partecipano, principalmente a causa del costo elevato del viaggio – diverse migliaia di shekel. Il viaggio di solito dura cinque giorni e include visite ai luoghi dello sterminio e ai campi di concentramento di Auschwitz Birkenau, Majdanek e Treblinka, e alle città di Varsavia e Cracovia.
Al liceo Gymnasia Herzliya, circa la metà degli studenti di ogni classe partecipa al viaggio. Invece delle visite in Polonia, gli studenti hanno in programma gite di cinque giorni in Israele, durante cui incontreranno gruppi di popolazione diversi e persone con bisogni speciali.
Dagani cita diversi motivi per cui è stata presa la decisione. In primo luogo, il viaggio in Polonia è diventato molto costoso nel corso degli anni. “Il numero di studenti che partecipano è costantemente diminuito” dice. “Sta cominciando a essere un viaggio per ricchi. Vedo andare sempre meno ragazzi provenienti da famiglie meno abbienti. I genitori fanno sforzi per mandare i figli, e alla fine i ragazzi tornano e dicono che la cosa più significativa del viaggio è stata la solidarietà sociale. Mi sembra un po’ assurdo andare fino in Polonia per rafforzare i legami sociali”.
Dagani aggiunge anche che il carico emotivo sui ragazzi è un altro motivo per interrompere i viaggi. “È un viaggio che se si prende sul serio, è troppo pesante emotivamente per ragazzi di 16 e 17 anni, e ci sono alcuni per i quali è molto difficile”.
La ragione principale, e forse la più controversa, secondo Dagani, è l’influenza ultranazionalista sugli adolescenti che si avvicinano all’età militare. “Alcuni dei ragazzi che partono, tornano dal viaggio più sciovinisti, e sono assolutamente convinto che non è così dovrebbero essere i viaggi”, spiega. “Se c’è un’atmosfera umana e universalista nella società o nel Paese, il viaggio può rafforzare simili messaggi, ma se l’atmosfera nel Paese oggi è di delegittimazione dell’altro e se il clima nella società è di ultranazionalismo, allora questo viaggio rafforza quelle tendenze”.
“Il viaggio in questi ultimi anni ha tendenze che sono più bellicose e più adatte all’atmosfera e alla situazione in Israele, che comprende l’odio per l’altro e la paura dell’altro”, dice Dagani. Osserva inoltre che “questo argomento è troppo importante perché solo il 50 per cento dei ragazzi possa fare il viaggio e imparare mentre un altro 50 per cento lo perda. Vogliamo intensificare lo studio della materia, e vogliamo che tutti gli studenti facciano esperienze di apprendimento “.
Come parte del programma di studio alternativo, il Gymnasia Herzliya dedicherà il 30 per cento del curriculum di storia all’insegnamento della Shoah e del genocidio. Gli studenti impareranno non solo le atrocità commesse contro gli ebrei, ma anche dello sterminio di massa degli armeni e dei rom così come del genocidio in Ruanda. Inoltre, dice Dagani, “al posto del viaggio in Polonia, andremo tutti insieme in un viaggio di cinque giorni in tutto il paese e studieremo la realtà israeliana, che è in parte legata alla Shoah. Credo che tutte queste cose, nel loro insieme, costituiscano una spiegazione dell’alternativa che proponiamo. Sarà un viaggio di studio esperienziale”.
Al momento c’è un piccolo numero di scuole superiori israeliane che hanno cancellato i loro viaggi in Polonia a favore di altre attività. Dagani si è consultato con una delle più importanti tra queste, l’Accademia d’Arti e Scienze Israele di Gerusalemme.
La dottoressa Shula Gelerstein, presidente della commissione genitori della Gymnasia Herzliya e madre di un alunno diciassettenne, ritiene che questo passo sia giusto e conferma che la maggior parte dei genitori era d’accordo con la decisione di annullare i viaggi. “Ho partecipato al comitato per l’organizzazione del viaggio in Polonia, e abbiamo notato che negli ultimi anni non più del 50, 55 per cento degli studenti andava” afferma. “Ci siamo resi conto che i costi sono un problema. Prima di prendere la decisione, Dagani ha incontrato i genitori delle terze liceo e il comitato dei genitori. Ciascun membro del comitato ha espresso la sua opinione e c’era un accordo quasi unanime nell’annullare i viaggi in Polonia e pensare ad un viaggio alternativo. ”
“Quello che mi ha anche dato fastidio è che il viaggio non è sempre visto come un viaggio studio, ma più come un’esperienza piacevole. È un’occasione mancata”, dice Gelerstein. “Abbiamo deciso che i ragazzi visiteranno i centri per i sopravvissuti alla Shoah adiacenti agli ospedali psichiatrici, e faremo loro vedere che vi si trovano sopravvissuti che non hanno alternative e che sono mentalmente fragili. Una delle raccomandazioni è di includere queste visite, di aiutare, fare volontariato e sentire dai sopravvissuti il racconto di ciò che hanno vissuto”.
Il ministero dell’Istruzione ha dichiarato che “incoraggia gli studenti israeliani a visitare ciò che rimane delle comunità ebraiche in Polonia e i siti dei campi di sterminio. Questo viaggio ha lo scopo di rafforzare il senso di appartenenza degli studenti al popolo ebraico e il loro legame con la sua eredità culturale e le sue generazioni. Va sottolineato che si tratta di un privilegio e non di un obbligo, e che la decisione di andare o meno in Polonia rimane nelle mani dei dirigenti scolastici”.

(Yarden Skop, Haaretz – 10 aprile 2016)

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Perché alcuni israeliani preferiscono non mandare i loro figli nei viaggi della Memoria a Auschwitz

Le critiche sono concentrate sul trauma emozionale inflitto agli adolescenti, gli alti costi che gravano sulle famiglie, e il messaggio nazionalistico che prevale sui valori universali.

Più di venti anni fa, un esponente del governo israeliano fu sommerso dalle critiche per aver messo in discussione l’efficacia dei viaggi ad Auschwitz pagati dallo Stato.
Il progetto era in una fase iniziale quando Shulamit Aloni, allora ministro all’Educazione, espresse la propria ripugnanza per il fatto che giovani israeliani “marciassero con le bandiere al vento, come se fossero andati a conquistare la Polonia”. I pellegrinaggi nei campi di sterminio, metteva in guardia l’ex leader della sinistra israeliana, stavano creando una generazione di xenofobi ossessionati dall’idea della potenza ebraica, ma praticamente ciechi davanti alla lezione universale della Shoah.
Giunti a oggi i viaggi in Polonia sono diventati un rito di passaggio per i giovani israeliani, più o meno come il servizio militare e il trekking in Nepal dopo la permanenza nell’esercito segnano l’ingresso nell’età adulta. E l’attuale ministro all’Educazione Naftali Bennett, il leader del partito più a destra della coalizione di governo, ne è un grande sostenitore.
A dire la verità è da lungo tempo che i viaggi sono al centro di polemiche. E persistono i dubbi sul costo notevole, sul messaggio e sulla capacità degli adolescenti di affrontare l’esperienza straziante. Ma fino ad ora nessuno aveva osato rovinare la festa.
Nel 2010, l’Accademia israeliana per le Arti e le Scienze, una scuola privata elitaria di Gerusalemme, è diventata la prima scuola del paese a smettere di mandare suoi studenti in Polonia. Pochi vi hanno fatto caso, però, perché si trattava di una piccola scuola privata abbastanza nuova – di certo non una istituzione nota.
Ma lo scorso mese, quando il Gymnasia Herzliya di Tel Aviv, la più antica scuola ebraica del paese, è diventato il primo istituto pubblico di una certa dimensione a invertire il trend, la nazione se ne è accorta.
Citando il pericoloso aumento del nazionalismo in Israele, il preside Zeev Degani ha annunciato che a partire dal prossimo anno la scuola non manderà più delegazioni in Polonia. Verranno trovate, invece, altre strade per educare gli studenti all’Olocausto, in patria.
La scuola superiore Ironi Alef per le Arti, un’altra istituzione storica di Tel Aviv, voterà in merito alla fine di questo mese. Immaginando un possibile effetto domino, il leader dell’associazione nazionale dei dirigenti scolastici ha fatto sapere, in forma privata, di essere lui stesso favorevole alla eliminazione dei viaggi.
Yair Auron, storico ed esperto di Olocausto e genocidi, dice che sarebbe prematuro parlare di un trend. “Sarei felice di essere smentito, ma non riesco a immaginare che possa succedere fino a quando avremo alla guida del ministero dell’Istruzione un modo per promuovere i suoi programmi nazionalisti” dice Auron, professore alla Open University di Israele.
Dal momento in cui ha iniziato questo lavoro, sette anni fa, Degani, lo schietto e carismatico preside del ginnasio Herzliya, ha espresso le proprie riserve sui viaggi. Ma soltanto ora ha avuto la percezione che i tempi fossero maturi per passare all’azione.
“Per come la vedo io, questo è il nostro antidoto – e mi scuso per l’espressione – al processo di fascistizzazione che sta prendendo il controllo della politica in questo paese” ha detto a Haaretz.
Figlio di sopravvissuti alla Shoah, Degani non è mai stato in Polonia “per questione di principio”, dice, ma è sempre stato curioso del modo in cui i suoi studenti hanno vissuto il viaggio.
“Un anno dopo l’altro chiedo loro qual è stata la parte più significativa del viaggio e ogni volta ricevo la stessa risposta, e cioè che l’esperienza li ha resi più coesi socialmente” dice Degani.
“Bene, se il punto era renderli più coesi socialmente, perché non mandarli tutti in viaggio in Israele, nel Negev? È di gran lunga più economico”.
L’Accademia israeliana per le Arti e le Scienze ha maturato la sua decisione per motivi diversi. “In ragione del fatto che siamo una scuola convitto, siamo in grado di interagire molto di più con i nostri studenti e riusciamo a monitorarli ventiquattr’ore su ventiquattro sette giorni alla settimana” dice il preside, Etay Benovich. “Alcuni studenti hanno provato esperienze emotive molto difficili al loro ritorno dalla Polonia. Questo ci ha fatto capire che non è la cosa giusta per tutti i diciassettenni”.
E non solo per questo i viaggi non sono adatti a quell’età, dice Auron, lo storico. “Se potessero visitare la Polonia a 30 anni, sarebbe ovviamente molto meglio”. “Portare i giovani ad Auschwitz, subito prima che si arruolino nell’esercito, e cercare di creare un’esperienza emotivamente forte per loro – non un’esperienza intellettuale, ma un’esperienza emotivamente forte – e dire loro subito dopo sia in modo diretto che attraverso suggestioni che ora capiscono perché abbiamo bisogno di un esercito forte e dell’impossibilità di contare sugli altri per me semplicemente non è giusto”.

Aggiustamenti sui prezzi e affarismo

A circa 6.000 shekel per studente (1.600 dollari), gli alti costi di questi che spesso sono definiti “viaggi per i ricchi” sono comunemente oggetto di lamentela. (Anche se è disponibile un finanziamento governativo limitato per studenti bisognosi, molti ancora non possono permettersi di partecipare ai pellegrinaggi di una settimana, il che potrebbe parzialmente spiegare perché, in media, meno della metà di studenti in ogni classe finisce per partecipare).
Non c’è dubbio che un altro elemento che ha contribuito alla recente reazione è stato lo scoprire gli aggiustamenti fatti dagli operatori di viaggio sui prezzi e il loro tentativo di approfittarne. All’inizio di quest’anno, alcuni funzionari di sei fra le più importanti aziende turistiche, a cui il ministero dell’Istruzione aveva concesso il subappalto, sono stati oggetto di indagini di polizia dopo per un presunto tentativo di eliminare la concorrenza sui prezzi nella loro nicchia di mercato.
“Se si va da soli – e l’abbiamo controllato – costa meno della metà del prezzo che fanno pagare queste compagnie”, dice Degani. “Il fatto che molte persone ci stiano guadagnando, e guadagnando un sacco di soldi, con le commemorazioni della Shoah – a mio parere rende il tutto illegittimo”.

Quarantamila partecipanti all’anno

Il governo, attraverso il Ministero dell’Istruzione, ha iniziato nel 1988 a sponsorizzare i viaggi organizzati in Polonia per gli studenti delle scuole superiori. I viaggi sono a partecipazione volontaria, e le scuole hanno un notevole margine di manovra nel decidere i propri contenuti, l’unico requisito richiesto è che gli studenti visitino Auschwitz.
Negli anni precedenti, i viaggi consistevano quasi esclusivamente in visite ai siti dei campi di sterminio e ai ghetti ebraici. Di recente, sono stati aggiunti momenti più leggeri, tra cui l’esplorazione della vita ebraica nella Polonia anteguerra, serate folcloristiche e uno spazio per lo shopping.
Secondo Dani Rozner, il funzionario del Ministero dell’Istruzione responsabile delle iniziative, il numero di studenti che partecipa è cresciuta costantemente, avvicinandosi ai 40 mila all’anno nel periodo più recente, con delegazioni provenienti da 400 scuole superiori da tutto il Paese.
“Per come la vediamo, la nostra sfida principale è fare in modo che tutti gli studenti che partecipano siano emotivamente preparati”, afferma Rozner.
Anche se il curriculo di storia per la scuola superiore comprende una sezione di base sull’Olocausto, gli studenti che partecipano ai viaggi in Polonia beneficiano di lezioni e attività di approfondimento aggiuntive, sia prima di partire sia al loro ritorno. Degani, il direttore della Gymnasia Herzliya, sostiene che questo è stato un altro motivo per le sue obiezioni.
“Il prossimo anno, tutti gli studenti, non solo metà di loro, imparerà cosa è stata la Shoah perché faremo un viaggio di cinque giorni intorno a Israele per studiarla, e per una volta, lo faremo tutti assieme”, ha detto.
Non tutti sono così critici sui viaggi come Degani. Eilon Nave, preside di un altro grande liceo nel centro di Israele, l’Ahad Ha’am a Petah Tikva, crede che si combinino bene con l’obiettivo della sua istituzione di coinvolgere le comunità emarginate e svantaggiate (sottolineando, ad esempio, la collaborazione con una scuola araba nelle vicinanze). Come altri sostenitori del programma, Nave afferma che niente supera l’esperienza di essere presenti sul luogo per comprendere ciò che è stato.
“In qualità di insegnante di storia, sono un grande sostenitore delle visite ai posti in cui hanno avuto luogo grandi eventi” afferma. “Questo vale non solo per la l’Olocausto, ma anche per la storia dello Stato di Israele”.
E se gli studenti tornano dalla Polonia, come accade alla maggior parte di loro, con un maggiore apprezzamento per Israele, per Nave non si pone alcun problema. “Io di certo non sminuisco questo aspetto del viaggio”, dice.
Per quanto riguarda i costi elevati, dice, beh, questa è la vita. “Sono un kibbutznik, e vi posso dire che anche nel kibbutz non c’è piena uguaglianza”, dichiara. “Alcuni bambini della nostra scuola possono permettersi bici elettriche, e altri no. Lo stesso vale per questi viaggi, ma non è un buon motivo per scartarli”.
Eyal Kaminka, direttore della Scuola Internazionale di Studi sull’Olocausto a Yad Vashem, dice di essere favorevole alla continuazione dei viaggi ma a certe condizioni.
“Vi è sicuramente un valore aggiunto nell’essere lì fisicamente, e vi è di certo posto per questi viaggi, in Israele – ma solo nella misura in cui siano fatti bene”, dice Kaminka. “È necessario fare in modo che i ragazzi che andranno abbiano la giusta motivazione, che siano emotivamente preparati perché questi viaggi non sono adatti a tutti”.
In seguito alla sua esperienza sull’educazione all’Olocausto, Kaminka riconosce che i viaggi non sono necessariamente il miglior strumento per l’insegnamento della materia. “Quello che abbiamo imparato è che nulla è paragonabile all’incontro con sopravvissuti e all’ascoltare le loro storie”, spiega.
Un rapporto commissionato dal Ministero dell’Istruzione, pubblicato cinque anni fa, ha dato come risultato che la stragrande maggioranza degli studenti che hanno partecipato ai viaggi in Polonia sono tornati con un più profondo apprezzamento della loro radici ebraiche e della necessità di uno Stato ebraico indipendente. Una quota minore – seppur sempre la maggioranza – ha affermato di essere tornata con una migliore comprensione dei pericoli universali dell’intolleranza e del razzismo.
Ma, secondo Kaminka, coloro che volessero concludere sulla base di questi risultati che i viaggi supportano il crescere di pericolosi sentimenti nazionalisti tra i giovani israeliani sarebbero responsabili di un giudizio affrettato. “Valutare gli effetti a lungo termine di questi viaggi è una grande sfida”, dichiara. “I partecipanti sono veramente più di destra quando tre anni dopo vanno a votare? Io non posso dirlo e non so se qualcuno può farlo”.

Nessuna meraviglia

Molti studenti parlano di un’esperienza che ha cambiato le loro vite. Raz Strugano, che studia alla Ben-Gurion University, afferma che le gite sono qualcosa da fare assolutamente.
“Prima di andare con la scuola evitavo in tutti i modi l’argomento Olocausto perché mi spaventava veramente, tanto da non poter nemmeno guardare un film che ne parlasse” dice Raz, di Be’er Sheva, che ha visitato la Polonia con la sua classe delle superiori cinque anni fa. “Dopo un sopralluogo, non sono ancora in grado di comprendere a fondo quello che è successo ma almeno ne so qualcosa in più”.
Al contrario, un ufficiale dell’Intelligence militare dice che guardandosi indietro non è molto sicuro. “Allora ero solo un adolescente e sebbene sia stata un’esperienza molto forte, non credo mi abbia insegnato molto e onestamente non mi capita spesso di ripensarci”, testimonia l’ufficiale, il cui nome non può essere usato perché non può parlare con i giornalisti senza permesso.
“Il problema principale del viaggio era l’eccessiva enfasi che veniva posta sul passato, ma non sul futuro, su come mettere in pratica quanto imparato per rendere Israele un posto migliore. Il messaggio che ho recepito è stato quanto è importante arruolarsi e difendere il paese e non ne capivo il senso. Ho pensato che fosse solo propaganda.”
Anche un altro soldato, che ci ha chiesto di non pubblicare il suo nome, ha trovato la gita deludente. “Certo, ci sono stati momenti molto forti ma per la maggior parte del tempo mi sembrava come se stessi visitando un museo con i miei compagni di classe, non ho sperimentato quel momento di stupore che mi aspettavo”.
Molti adolescenti israeliani non partono con la scuola, ma con i gruppi giovanili di cui fanno parte, e in questo caso raccontano di aver vissuto un’esperienza più significativa. Come osserva Idan, un comandante dell’esercito di 21 anni che vi ha partecipato con il gruppo socialista Hashomer Hatzair: “I ragazzi che vanno con i movimenti giovanili hanno un’idea più chiara di quello che vogliono trarre da questa esperienza. Si tratta meno di essere all’estero a divertirsi con i propri amici, per loro”.
Quando l’Accademia delle Arti e delle Scienze di Israele ha cancellato i viaggi, molti studenti e genitori hanno protestato. “All’epoca era considerata una scelta quasi sovversiva”, ricorda il direttore Benovich. “Adesso pare se ne siano fatti una ragione. L’anno scorso abbiamo organizzato una riunione con 20 genitori per decidere se reintrodurre questi viaggi, e solo due hanno votato a favore”.
Da quando i viaggi sono stati eliminati, la scuola ha sviluppato un suo progetto alternativo: un pellegrinaggio di cinque giorni per il Paese che si concentra sull’effetto dell’Olocausto sulle varie sfaccettature della società israeliana. “Ogni anno i ragazzi vengono coinvolti nella scelta dei contenuti specifici, e sono loro sessi che ne insegnano una parte”, afferma Benovich.
“Incontrano i sopravvissuti, studiano altri genocidi e le vittime non di religione ebraica del regime Nazista. Ogni anno è qualcosa di diverso”.
Tra i più grandi sostenitori del progetto di Benovich ci sono i sopravvissuti all’Olocausto, uno dei quali gli ha recentemente scritto: “L’aver vissuto queste atrocità è stato già abbastanza. Perché gli studenti israeliani dovrebbero andarci?”
Ruth Bondy, un’importante giornalista e traduttrice di origine ceca sopravvissuta sia a Theresienstadt che a Auschwitz non potrebbe essere più d’accordo. “Gli adolescenti israeliani possono imparare le stesse cose passando tre giorni a Yad Vashem spendendo l’un per cento di quello che pagano ora” dice la novantaduenne.
“Siamo giunti ad un punto in cui il successo di queste gite viene misurato in base a quanti ragazzi finiscono per piangere. Il mio suggerimento è di mandare i nostri ragazzi in luoghi di grande bellezza, invece di spedirli verso cimiteri di massa, e che nel viaggio all’estero organizzato dal sistema scolastico li mandiamo in qualche posto davvero bello. Perché non Firenze, tanto per iniziare?”
Degani è incoraggiato da questo tipo di risposte ma afferma di essere ancora scettico sul numero di persone che seguiranno la sua linea di pensiero. “C’è un sacco di pressione per accettare la situazione attuale – ha detto – ma siamo riusciti ad aprire il confronto sull’argomento, e anche questo è importante”.
Il ministero dell’Istruzione ha aggiunto: “Incoraggiamo gli studenti israeliani ad andare a visitare ciò che rimane delle comunità ebraiche in Polonia e i siti dove sorgevano i campi della morte. Questi pellegrinaggi intendono rafforzare il loro legame con il popolo ebraico e la loro eredità attraverso le generazioni. Bisognerebbe sottolineare che questi viaggi si fanno su base volontaria, non obbligatorie e che ciascun preside é libero di decidere se organizzarle o meno”.

(Judy Maltz, Haaretz – 5 maggio 2016)

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Cosa succede veramente durante i viaggi degli studenti israeliani in Polonia, dedicati all’Olocausto?

Un antropologo che ha partecipato a cinque viaggi della Memoria spiega perché crede che non diano risultati agli studenti e siano solo un beneficio per i militari

Il dottor Idan Yaron, antropologo e docente di Sociologia presso l’Ashkelon Academic College, ha compiuto cinque viaggi in Polonia con gli studenti delle scuole superiori israeliane. I genitori israeliani sono sempre più riluttanti a far partecipare i propri figli a questi viaggi, e Yaron delinea ciò che considera essere i problemi principali del viaggio.
“Il problema principale sta nei valori che vengono promossi”, spiega a Haaretz. “Nella loro forma attuale, i viaggi seguono un programma ma non raggiungono gli obiettivi formativi. La storia è, ‘Siamo sopravvissuti all’Olocausto, e siamo qui per rimanere. E noi – parole mie – gliel’abbiamo dimostrato.” È questa la narrazione, sistematicamente e a livello nazionale. E quando sfruttiamo il viaggio in Polonia per portare avanti un programma che rafforza il nazionalismo, è un problema. Non raggiungiamo gli altri obiettivi e in genere il messaggio umano dell’Olocausto è sfocato”.

Il sistema fa arrivare agli studenti il messaggio che tutto è solo identità ebraica e sionismo, e non ci sono altri messaggi?

“Sì. I viaggi sono di solito costruiti attorno alla vicenda ebraico-sionista ed ebraico-nazionalista, e molto meno su un messaggio universale e sul significato della Shoah. È una cosa così mirata, organizzata e gestita in maniera manipolatoria da un sistema educativo molto ben collaudato che non c’è quasi nessuno spazio per gli studenti per dire ‘Guardiamo anche le sofferenze di altri popoli’. Se qualcuno cerca di dire una cosa del genere, c’è la sensazione che stoni, è quasi un tabù”.
“Per esempio, sono partito con la delegazione di una yeshiva e ho chiesto alla persona che guidava il viaggio se era preoccupato che, come sostengono i critici, il viaggio avrebbe aumentato il nazionalismo degli studenti. Mi ha detto, ‘Certo [lo farà], questo è quello che vogliamo ottenere qui.’ Inoltre, in una certa misura questo è un viaggio in una bolla. La Polonia non esiste. Gli studenti la vedono solo attraverso la finestra di un autobus in movimento. Anche quando andiamo nei campi di sterminio, i segnali e le indicazioni sono in ebraico e c’è la sensazione di essere in una enclave israeliana”.

E sono messaggi che passano davvero? Gli studenti diventano nazionalisti?

“No, posso rassicurare tutti coloro che se ne preoccupano e che affermano che l’influenza del viaggio sulle opinioni degli studenti sia relativamente insignificante. Non contribuisce in modo significativo e nel corso del tempo a rafforzare la consapevolezza ebraica o sentimenti nazionalistici. E, con mio rammarico, non aumenta nemmeno l’empatia umana o generale. È vero, stanno cercando di inculcare i valori nazionalisti, che possono uscire rafforzati tra coloro che sono già venuti in viaggio con una visione nazionalista definiti. Ma non ho visto transizioni da un lato all’altro dello spettro, o da una posizione all’altra”.

Come lo spiega?

“Le scuole hanno un’influenza marginale sugli studenti. Il viaggio ha effetto nel breve termine, ma passa. Ma è importante implementare una linea educativa vera e propria, e coerente “.

Empatia per i vivi

Allora, cosa stiamo sbagliando?

“Stiamo perdendo la possibilità di trasmettere valori educativi veri. La memoria della Shoah è una pietra miliare nella vita dell’umanità, non necessariamente solo nella vita del popolo ebraico. Non abbiamo davvero bisogno di un monopolio sull’Olocausto. Il risultato evidente della storia dell’Olocausto come storia ebraica è spesso paranoia, ed è pericoloso. Israele non si sta occupando di preservare e coltivare la memoria della Shoah in maniera corretta. Ciò che manca è l’empatia per i vivi, non per i morti. Al suo posto stanno creando la paura”.

Come è possibile misurare l’effetto di questi viaggi?

“Nessuno può valutare correttamente i risultati del viaggio nel lungo termine, ma una delle misure utilizzate è un aumento nella volontà degli studenti di svolgere un ruolo significativo nell’IDF, l’esercito israeliano. I giovani mi hanno detto esplicitamente che il viaggio in Polonia ha rafforzato la loro decisione di arruolarsi nelle unità d’elite”.

Sembra che a beneficiare dei viaggi in Polonia sia soprattutto l’esercito.

“Non c’è dubbio che l’IDF sia il beneficiario dei viaggi in Polonia. Il risultato che passa agli studenti grazie ai messaggi che sobillano la paura e alle vittime è che una cosa simile non accade oggi perché siamo forti, e perché abbiamo una nazione indipendente, e l’esercito”.

In altre parole, la soluzione per proteggersi dalla Shoah è la forza.

“Sì, e questo non è sufficiente, a mio parere. Gli studenti hanno bisogno di ricavarne un messaggio diverso, anche perché quando abbiamo la forza, abbiamo anche bisogno di discutere del suo utilizzo e fondarlo su un punto di vista morale che impedirà di corromperne il senso. Il messaggio che gli studenti ricevono deve essere onesto: Siamo forti ora, ma è anche una cosa che pone dei vincoli. Con un altro progetto di ricerca ho passato molto tempo nelle scuole, negli ultimi anni, e ho visto come sia forte il razzismo nella vita dei giovani. Dobbiamo combatterlo. Se gli studenti che tornano a casa dalla Polonia dicono ‘Dobbiamo uccidere tutti gli arabi,’ allora non abbiamo raggiunto nessun risultato”.

Dicono una cosa del genere?

“Lo dicono senza alcun problema, e dirlo è diventato più legittimo negli ultimi anni”.

E come sono collegati ai nazisti, gli arabi?

“Quello che imparano in Polonia è solo ciò che è stato fatto agli ebrei in un determinato periodo, e ne concludono che dobbiamo essere forti e sbaragliare i nostri nemici. Ho portato avanti molte osservazioni nelle scuole, ed esiste con il razzismo un problema profondo. Per esempio, il viaggio in Polonia non affronta per nulla il razzismo, che in Israele è un problema profondo. Nel momento in cui il viaggio porta a un nazionalismo più forte e a pensare che ‘Siamo noi contro il mondo,’ abbiamo ottenuto il risultato opposto a quello che volevamo. Quando si viaggia per capire se stessi e poi guardandosi allo specchio si vede un volto razzista e violento, in qualche modo si ha perso. Ci sono grandi lezioni che gli studenti devono imparare in Polonia, ma molte volte non ci arrivano”.

Ci può spiegare il significato della bandiera israeliana? Nelle immagini che gli studenti caricano su Facebook sono sempre avvolti nella bandiera israeliana.

“Sì, la bandiera israeliana è un elemento essenziale nei viaggi. Usano la bandiera come strumento di espressione, e alcuni di essi vi si avvolgono. Ogni delegazione arriva in Polonia con decine di bandiere. Recentemente, i polacchi hanno chiesto di limitare il movimento di bandiere in alcune aree dei campi, ed è una fonte di frustrazione per i ragazzi. Le bandiere hanno anche un ruolo chiave nelle cerimonie, insieme all’inno nazionale israeliano ‘Hatikva,’ che in Polonia viene cantato almeno due volte al giorno”.

Haaretz ha recentemente cercato di ottenere dal Ministero della pubblica istruzione il permesso di seguire uno dei viaggi delle scuole superiori in Polonia, ma non siamo stati autorizzati. C’è qualcosa da nascondere?

“Forse sono preoccupati che scriviate della violenza e del vandalismo di cui si legge a volte sui giornali, ma si tratta di eventi marginali. Vengono gonfiati troppo, e sono meno importanti nel contesto dei viaggi in Polonia. In ogni caso, è un peccato che il Ministero dell’istruzione non si dimostri trasparente in simili questioni. Penso sia un errore che non vi abbiamo dato il permesso di partecipare – non c’è nulla da nascondere”.

Yaron aggiunge che in nessuno dei viaggi che ha accompagnato ci sono state feste o serate nei nightclub. “I ragazzi hanno un programma completamente pieno. Sono giorni difficili, pieni ed estenuanti, e non c’è spazio o tempo per cose del genere. Ogni tanto c’è qualcuno che viene con una bottiglia di alcoolici. C’è stato un caso, in uno dei viaggi, in cui alcuni ragazzi non si alzavano la mattina perché avevano bevuto durante la notte, e quando la sicurezza ha aperto la porta li abbiamo trovati svenuti a letto, è stato un caso di enorme imbarazzo. Ma sono cose rare.
“I ragazzi non hanno nemmeno il permesso di entrare nei negozi duty-free prima del volo e se qualcuno viene beccato con dell’alcol viene immediatamente escluso dal viaggio. È difficile fumare nelle stanze perché ci sono i rilevatori di fumo e la sicurezza va immediatamente a riferire agli insegnanti. Inoltre oggi rispetto al passato, la cultura del bere tra i giovani è talmente sviluppata che troveranno altre opportunità. E in realtà non sono così disperati durante i giorni in Polonia da doversi rilassare bevendo”.

(Rotem Starkman e Lior Dattel, Haaretz – 6 maggio 2016)