A Holt, cioè qui
Esci dalla Contea di Holt ma ci resti. Come in quella vecchia ma sempre moderna canzone degli Eagles, quella che – parlando dell’Hotel California, alludendo a uno spazio/tempo molto più vasto, e non localizzato solo in America – ci spiegò che in certi posti si può solo entrare e mai uscire. Alla fine della seconda lettura di Crepuscolo, di Kent Haruf (NNEditore), il vostro Esercitante Lettore è imbarazzato: lasciarsi portare dalla commozione e dalla gioia o estrarre la cassetta degli attrezzi del critico letterario? Nel dubbio, scrivo: deciderete voi se sono riuscito a essere sia Valerio sia Fiandra.
In un antico racconto Vedanta si narra della possibilità di smorzare il grido quando il dolore si fa troppo forte; non toglierlo, né ignorarlo: smorzarlo. Il dolore esiste, chiunque lo sa, e non è né evitabile né anestetizzabile; oserei dire che è prezioso, purché non diventi l’alibi perfetto per i delitti o le buone azioni che non commetteremo. Smorzare è qualcosa di più dell’accettare, qualcosa di meno dell’abbracciare. Leggendo Kent Haruf, la sua prosa quieta ma vibrante e precisa si insinua come la linea di minor resistenza negli occhi di chi legge. I suoi personaggi comuni e specialissimi – che non ci assomigliano in niente, tranne che nella sostanza – si fanno strada con l’andamento erratico ed insieme determinato delle vite destinate. I suoi uomini, donne, bambini e animali mangiano, camminano, piangono, parlano, fanno l’amore, si fanno male, fanno del bene, vivono e muoiono come noi che pure non abitiamo nella immaginaria Contea di Holt. Immaginaria?
Una canzone degli U2 cantava delle Strade Che Non Hanno Nome; le strade di Holt hanno tutte un nome. La loro toponomastica ci è chiara, potremmo farcene una mappa. Siamo Con i personaggi, mucche e conigli compresi. MiracHolt ho pensato, e – mi scusino i credenti – Dio non c’entra: la sospensione della realtà è atto profondamente umano.
Le storie di Raymond, Victoria, Dj e suo nonno, del toro cattivo e degli agnelli abbandonati si intrecciano fra loro, e si intrecciano alle nostre. Devo rimarcarlo: senza il minimo cedimento alle romanticherie, o ai buoni sentimenti come li abbiamo imparati a conoscere, ed evitare: semplicemente ( che è qui sia avverbio di modo sia aggettivo ) Kent Haruf non ha paura di raccontare la vita ordinaria dei suoi personaggi, e la nostra. Ci facciamo male anche noi, lavoriamo duro, ci innamoriamo, ci lasciamo, vediamo amici e genitori morire, li curiamo, ci facciamo curare anche se non abitiamo a Holt, anche se le nostre fatiche non assomigliano, per lo più, a quelle degli allevatori e degli agricoltori del Colorado.
La Grande Magia di questo scrittore straordinario assomiglia al folle progetto del protagonista di un romanzo di Nabokov quasi appena uscito per Adelphi (“Una Risata Nel Buio ), di cui ho interrotto la rilettura perché Haruf mi chiamava, e del quale vi scriverò presto. Albinus, il suo protagonista, immagina e progetta un cartone animato che possa dar movimento ai grandi quadri fiamminghi o italiani che ama; bene: Haruf mette movimento alle istantanee che la sua prosa scatta quando i suoi occhi fotografano gli interni e gli esterni di Holt. L’effetto è un film proiettato attraverso le righe sullo schermo dei vostri occhi. Non credo sia possibile rendere al cinema una simile opera letteraria e visiva: ci vorrebbero John Ford, o Robert Altman, e non sono sicuro ce l’avrebbero potuta fare. Non so essere più chiaro di così, me ne scuso con chi non ha ancora letto e confido nella comprensione di chi invece sì.
La storia ?
Volete che vi dica del ballo fra Raymond e Rose? Del Toro? Di Hoyt il bastardo, di DJ amorevole, di Victoria e Katie, dell’ospedale e della taverna, del coniglio illuminato dai fari, di Dena che cresce, di Donna che provoca, di Joy Rae che è piccola ma crescerà?
Leggete: gioite e piangete – ne avete, ne abbiamo bisogno.
Un’ultimo ma non inutile suggerimento: se siete soliti ascoltare musica mentre leggete, la colonna sonora potrebbe essere la Prima Sinfonia di Mahler, o Belladonna di Daniel Lanois. O, meglio ancora, la Pastorale di Beethoven – come scrive nella sua Nota il traduttore in italiano di Kent Haruf. Da molto tempo penso che il critico migliore sia chi traduce bene: da Walter Benjamin a Anna Nadotti, gli esempi della formidabile potenzialità di chi indaga la lingua quando deve trasportarla in un’altra testimoniano del debito che sia gli autori tradotti sia noi, che altrimenti non li potremmo leggere, abbiamo con la loro paziente, dedicata, ostinata opera pratica. Grazie, Fabio Cremonesi: rileggerò Haruf in originale, più arricchito.
Valerio Fiandra