Contando l’Omer – Un’attesa ardente
“Parla ai figli d’Israele e dì loro: quando sarete arrivati alla terra che Io sto per darvi e ne mieterete i prodotti del campo, porterete l’Omer, la primizia della vostra mietitura, al sacerdote. E agiterà l’Omer davanti al Signore per il vostro gradimento, nel giorno successivo a quello della cessazione dal lavoro” (Levitico 23, 10 e 11). “E conterete per voi all’indomani della cessazione, dal giorno in cui porterete l’Omer dell’agitazione, sette settimane complete. Fino al giorno dopo la settima cessazione, conterete cinquanta giorni e quindi offrirete una nuova offerta farinacea al Signore” (Levitico 23, 15 e 16). L’offerta dell’Omer è un precetto positivo che, come scritto in Levitico 23, 10 e 11, è legato ad Eretz Israel e al Bet haMikdash. La parola Omer compare per quattordici volte nel Tanach, undici volte nella Torah e tre volte nei Chetuvim. Due sono i significati che si ricavano dai versi biblici: un insieme di spighe d’orzo legate, un covone; un’unità di misura: un Omer è “un decimo di Efà” e corrisponde a circa quattro litri. Al tempo delle peregrinazioni dei figli d’Israele nel deserto, il Signore provvedeva al loro mantenimento con un Omer di manna a testa al giorno. Questo cibo, di cui non conoscevano né la costituzione né la provenienza, era il segno tangibile della hashgacà temidit, la protezione costante di D-o sul Suo popolo. Per gli ebrei stessi era anche una sorta di prova da superare, una “misura” per far “misurare” il proprio livello di fedeltà alle leggi divine. Forse proprio in ricordo dell’Omer di manna, fu comandato al popolo d’Israele, nel Levitico, di portare l’Omer Seorim, una misura d’orzo, che non solo doveva considerarsi un ringraziamento al Signore per la protezione concessa in passato, ma anche costituire una forma di preghiera e di lode per la continuazione del Suo gradimento nel presente e nel futuro. L’ipotesi è appoggiata dal Talmud: rabbi Jehudah riferì a nome di Rabbi Akivah: perché la Torah ha detto: portate l’Omer a Pesach? Perché Pesach è il tempo del giudizio sul raccolto. Disse il Santo Benedetto Egli sia: portatemi dinanzi l’Omer a Pesach affinché sia benedetto a voi il prodotto dei campi. In che cosa consisteva la Hakravat ha-Omer? Quando esisteva il Santuario, alla fine del primo giorno di Pesach, si potevano mietere le prime spighe d’orzo del nuovo prodotto. La notte del 16 di Nissan si cuoceva l’orzo e si macinava per trasformarlo in farina che, alla fine, era setacciata con tredici setacci. La mattina seguente, la farina veniva offerta al sacerdote nella misura di un decimo di Efà ed egli la mescolava con olio e olibano. Dopo l’Anafà (agitazione, v. avanti) se ne prendeva un pugno e si bruciava sull’altare, mentre il resto era consumato dai sacerdoti. Questo precetto si doveva compiere il secondo giorno di Pesach, perché il primo era sovraccarico di obblighi legati al sacrificio pasquale e alla celebrazione del Seder. Il rituale del sacerdote comprendeva l’atto che la Torah chiama Anafà, agitazione. Quest’azione consisteva nel sollevare l’Omer di farina d’orzo secondo un ordine ben preciso: avanti e indietro, in alto e in basso. Il Talmud babilonese spiega così questi movimenti: disse Rabbi Hijà bar Abba a nome di Rabbi Jochanan: avanti e indietro verso chi è padrone dei venti, in alto e in basso verso chi è padrone del cielo e della terra. “Bemaaravà” (in occidente; l’Israele di allora, cioè l’occidente di Babilonia) insegnano così: avanti e indietro per fermare i venti malvagi, in alto e in basso per fermare le rugiade malvagie. Con l’Anafà si ufficializzava la presentazione dell’offerta dell’Omer di orzo. Essa era l’atto con il quale, secondo il trattato talmudico di Rosh haShanah, si richiedeva la benedizione divina sul nuovo prodotto affinché concludesse senza danni la sua maturazione. Il Levitico 23, 15 e 16, ci insegna il precetto della Sefirat haOmer, conteggio che si deve effettuare dal secondo giorno di Pesach alla vigilia di Shavuot, il giorno del Matan Torah. La stessa mitzvah è esposta in forma diversa in Deuteronomio 16, 9: sette settimane conterai per te, dal momento in cui metterai la falce nelle messi inizierai a contare. I nostri chachamim z.l. spiegano: non leggere Bakamà – nelle messi – bensì Bekumà – stando in piedi. Impariamo che la mitzvah del conteggio va eseguita stando in piedi. È interessante notare che, nonostante il criterio del conteggio sia uguale, esiste una differenza sostanziale tra il computo che va da Pesach a Shavuot e quello che separa un giubileo dall’altro. Il comandamento del giubileo è enunciato così: conterai per te sette settimane di anni, sette anni per sette volte, saranno così queste sette settimane di anni, quarantanove anni. Per l’Omer è scritto conterete per voi, per lo Jovel conterai per te; ciò vuol significare che il computo del Giubileo era di competenza del Sinedrio, mentre il computo dell’Omer era una mitzvah prevista per tutto il popolo. Spetta a ognuno di noi contare giorno per giorno, anelando ardentemente, durante tutto questo periodo, fino al momento in cui il Signore ci concederà il dono della Torah. Il momento dell’esecuzione della mitzvah è la sera, dall’uscita delle stelle fino all’alba del giorno dopo; si recita un’apposita benedizione, benedetto sii Tu o Signore nostro D-o Re del mondo, che ci hai santificato con tuoi precetti e ci hai comandato il conteggio (del periodo) dell’Omer. Per la prima esecuzione di questa mitzvah non è prevista la benedizione di Shecheianu. Secondo l’opinione di Rabbi David ibn Zimrà e dell’Avudharam, la recitazione di questa berachah dopo il Kiddush della sera di Shavuot, vale anche per il computo dell’Omer, considerato come periodo di preparazione alla festa. Secondo Rabbi Shim’on ben Adderet o Adrat, detto Rashbà, la benedizione di Shecheianu si può recitare solo in occasione di mitzvot in cui ci sia gioia e giovamento tra le quali, ad esempio, leggere la Meghillah, suonare lo Shofar, riscattare il primogenito. La Sefirat ha-Omer ci ricorda il Santuario distrutto e noi non possiamo gioire né di questo né dell’offerta del manipolo d’orzo che avremmo portato se il Bet ha-Mikdash fosse ancora edificato. Un’altra spiegazione viene da Rabbi Biniamin ben Rabbi Avraham ha-Rofè. Egli sostiene che l’uso di non recitare anche la Birchat haZeman è perché il computo dell’Omer dipende dalla fissazione di Pesach, quindi, basterebbe la benedizione detta nel Kiddush della sera di festa. Dopo ogni conteggio usiamo recitare una formula particolare la cui traduzione è: sia gradito dinanzi a Te o Signore nostro D-o e D-o dei nostri Padri, che farai tornare il culto del Santuario al suo luogo, presto nei nostri giorni e concedi a noi la nostra parte nella Tua Torah. Questa frase ci rammenta che, quando esisteva il Santuario e si presentava l’offerta dell’Omer, anche il conteggio dei giorni fino a Shavuot era una mitzvah middeoraità – precetto della Torah; ora la mitzvah del computo non è altro che zecher lamikdash, ricordo del Tempio, quindi una mitzvah midderabanan – precetto dei rabbini. Rivolgere per quarantanove giorni questa supplica vuol dire auspicare ardentemente alla ricostruzione del Santuario e alla ricostituzione del culto al suo interno, quindi mettere in pratica questa mitzvah, non più come un ricordo, ma di nuovo come un precetto middeoraità. Rabbi Izchak Aramà, scrive nel suo libro Akedat Izchak: le sette settimane dell’Omer sono come i sette giorni che separano la donna dalla Tevilah per rendersi pura e unirsi il marito. È possibile considerare tutto questo periodo come una costante salita verso l’alto, il mezzo attraverso il quale è stato possibile per i figli d’Israele risalire in santità e giungere puri al grande appuntamento del Maamad har Sinai. Per ogni ebreo di oggi e di domani deve essere la stessa cosa. Se ognuno di noi la sera del Seder deve considerarsi come se lui stesso fosse uscito dall’Egitto, il computo dell’Omer deve essere la nostra preparazione spirituale al ricevimento della Torah. Il Maharal di Praga, alla domanda sul perché fu comandato ai figli d’Israele di contare ogni giorno dalla presentazione dell’omer di farina d’orzo fino a Shavuot rispose: questa mitzvah ci insegna che è fondamentale la commistione tra farina e Torah. Come disse Rabbi Elazar ben Azariah im en kemach en Torah, im en Torah en kemach, se non c’è la farina non c’è Torah, se non c’è Torah non c’è farina. (Estratto della lezione tenuta a Venezia nella giornata di studio del Progetto Mizrach – 1999).
Aharon Adolfo Locci, rabbino capo di Padova
Pagine Ebraiche, maggio 2011