Lingue madre

Sara Valentina Di PalmaOstana, od Oustano che dir si voglia in occitano (o lingua d’oc, idioma neolatino distinto già nella Commedia dantesca dalla lingua d’oil da cui deriva il francese moderno) è uno tra i piccoli borghi con meno di cento abitanti censiti come i più belli d’Italia, in provincia di Cuneo a poca distanza dalla Francia. Nonostante si trovi in una zona impervia e remota, la valle fu abitata sin dai tempi preistorici e nel X secolo vi giunsero persino le scorribande saracene, attratte dalle miniere di minerali preziosi per fabbricare armi. Del paese si hanno notizie documentate dal XIV secolo, quando nacque il nucleo dell’abitato probabilmente come zona adibita alla transumanza per il pascolo estivo. Anche qui arrivarono i valdesi, e nel XVI secolo la toponomastica della zona risentì della connotazione religiosa lasciandovi traccia in località denominate ‘cristiana’ o ‘ebrea’: dell’area di Miribrart si diceva ad esempio fosse abitata da ébréou, che probabilmente ebrei non erano ma protestanti (ma si sa, i ‘diversi’ alla società maggioritaria appaiono spesso come un unicum indistinto).
Fatto sta che a furia di violenze, espulsioni ed uccisioni, i valdesi furono estirpati come una mala erba entro la metà del XVII secolo, probabilmente più per scelte politiche legate ai marchesi di Saluzzo che per reale avversione popolare, in una gente che definiremmo montanara fiera delle proprie tradizioni piuttosto che cattolica fervente. Tant’è che nel primo Ottocento, a seguito di una disputa con il parroco locale sulla costruzione del nuovo cimitero, gli abitanti di Ostana giunsero a minacciare il sacerdote di ‘sventrarlo come un pesce’ – il che non sembra connotare un gran rispetto per le autorità ecclesiastiche.
Quale luogo più indicato per ospitare il Premio Ostana. Scritture in lingua madre giunto alla sua ottava edizione e dedicato alla preservazione culturale del multilinguismo, con l’obiettivo di far vivere e valorizzare sia lingue poco conosciute e ancor meno praticate, sia idiomi a rischio di estinzione o semplicemente esclusi dai canoni letterari tradizionali come l’occitano stesso ma anche il griko (antico idioma grecanico del leccese), lo Yoruba (parlata in Nigeria e Africa occidentale), lo shuar-chicham, quest’ultimo proveniente dalla foresta Amazzonica ecuadoriana, dove il popolo Shuhar tuttora cerca di resistere alla distruzione fisica e culturale. Distruzioni le quali spesso vanno insieme, e parafrasando l’antico detto su colui che distruggendo una sola anima è come se distruggesse il mondo intero, e viceversa salvandola (Talmud Bavli, Sanhedrin 4:5), potremmo dire lo stesso per chi preserva o rivitalizza una lingua e con essa una tradizione culturale e la popolazione che in questa lingua parlava, poetava, amava e purtroppo anche guerreggiava. Una popolazione che insomma di quella lingua nel bene e nel male viveva, come ricorda il filosofo (ebreo, nei suoi lavori profondamente influenzato dalla Shoah) George Steiner sull’uso controverso del linguaggio come strumento di potere: si veda a questo proposito la sua intervista con Donald Jerome Raphael Bruckner pubblicata dal New York Times il 2 maggio 1982, in merito al suo discusso romanzo The Portage to San Cristobal of A. H.. Nell’intervista, Steiner ricorda il suo “astonishment, naïve as it seems to people, that you can use human speech both to love, to build, to forgive, and also to torture, to hate, to destroy and to annihilate”. In altre parole, il linguaggio come forza creativa (e non a caso Steiner cita Bereshit ed il potere di possedere le cose nominandole, grande dono dato da D-o ad Adam nel completare la creazione) ma anche come arma di violenza se usato per intimidire, soggiogare, piegare al consenso. Se Lucrezio riteneva che religio instrumentum regni, lo stesso potremmo sostenere del linguaggio.
Ben consci del problema di un mal uso o abuso della lingua, vorremmo spendere ancora due parole all’altrettanto grave problema della morte linguistica come morte culturale. Sembra unico il caso dell’ebraico, lingua rimasta per millenni in uso con funzioni liturgiche e di studio, ma decaduta come lingua viva sino alla sua rivitalizzazione per mano del filologo russo Eliezer Ben Yehuda il quale non a caso alla fine del XIX secolo ne fece strumento del nascente nazionalismo ebraico: dare una lingua attuale e comune ad un popolo disperso da radunare nuovamente nell’unica patria degli avi. Peggiore la sorte di idiomi completamente scomparsi, o rimasti in vita solo per usi ecclesiastici, come il latino, la lingua avestica (idioma liturgico dello zoroastrismo) , e perché non ricordare anche il ge’ez, antica lingua di origine semitica ancora utilizzata dalla Chiesa etiopica ortodossa ed eritrea e, sorpresa, dai Beta Israel, derivando da un linguaggio protosemitico già in uso nel regno della regina di Saba. Quando ella si recò a visitare Salomone, “Shlomo rispose a tutte le sue domande, non ci fu nulla nascosto dal re che non le disse” (Melachim 1, 10:3). Chissà in che lingua avranno parlato, ammesso che avessero davvero bisogno di parlare per comunicare.

Sara Valentina Di Palma

(2 giugno 2016)