Ancora sulla violenza online
Già con la fine degli anni Novanta e la straordinaria diffusione di Internet iniziò una discussione, a più livelli, sugli effetti che il fenomeno della diffusione di massa delle comunicazioni giocasse sulla formazione dei sentimenti pubblici e sull’orientamento degli atteggiamenti collettivi. La novità del web era costituita soprattutto dal fatto che gli “utenti” fossero (restando tali a tutt’oggi) non solo fruitori di notizie ma essi stessi, per più aspetti, generatori delle medesime. Le novità introdotte e consolidate nel tempo, a proposito delle comunicazioni elettroniche di massa, riguardavano in particolare tre aspetti. Il primo di essi era la facilitazione di accesso alle comunicazioni, dato il progressivo abbattimento dei costi, l’accelerazione della trasmissione dei dati, l’incremento esponenziale del numero di informazioni trattate. Il secondo rimandava alla sostanziale incapacità di controllare le informazioni, una volta generate, introdotte e poi veicolate nella cybersfera. Chi le aveva create se le vedeva letteralmente sfuggire di mano, in una sorta di processo a rimbalzo, o “effetto specchio”, meglio conosciuto nel linguaggio di senso comune come “viralità”. Si riconoscevano i produttori iniziali, non le catene di trasmissione e moltiplicazione. Più in generale veniva rilevato come la mancanza di filtri di significato e la carenza di codici di interpretazione che non fossero quelli di cui le singole persone potevano dotarsi, agevolava la diffusione sia di informazione fondate (e quindi condivisibili) sia di veri e propri falsi, le une e gli altri spesso equiparabili nella percezione di molti. Il terzo fattore, denso di implicazioni, era il ridimensionamento o comunque la necessità di ridefinire la nozione giuridica (ma anche politica e culturale) di giurisdizione, intesa in senso lato come capacità di applicare le leggi d’imperio e di imporne gli effetti. Tradizionalmente l’esercizio di quest’ultima è propria di un soggetto collettivo sovraordinato rispetto alle persone, ovvero lo Stato, nel quale risposa la capacità di stabilire, entro i limiti spaziali in cui manifesta le sue prerogative e i suoi poteri, cosa sia lecito e legittimo e cosa invece vada perseguito o comunque non consentito in quanto estraneo se non pericoloso per la comunità nazionale. La giurisdizione, per sua stessa natura è nella tradizione delle società politiche un attributo fondamentale del fondamento del potere, comprendendo nel suo ambito anche il senso ultimo della giustizia (e dell’ingiustizia). La giurisdizione, quindi, è intesa in tale senso come esclusiva, non potendo essere condivisa con soggetti terzi o concorrenti. Non è un caso che i tentativi di dare corso ad un diritto penale internazionale, sovranazionale, si siano spesso incontrati con il rifiuto palese o le innumerevoli perplessità opposte dagli Stati nel corso del tempo. Il presupposto dell’uno e delle altre è si è sempre manifestato intorno alla premessa per cui l’istanza ultima di giudizio è lo Stato medesimo, che non può essere espropriato di tale funzione pena la sua decadenza. A tale riguardo, non è un caso se nell’età contemporanea i tentativi di dare corso ad un diritto internazionale non puramente “di fatto”, ovvero generato dai meri rapporti di forza tra Stati (come ad esempio avveniva invece nell’età del colonialismo, quando il più forte si imponeva sui più deboli), li si debba alla conclusione delle due guerre mondiali. In quanto è in quel breve lasso di tempo che si misurarono alcune cose ed in particolare: che alcuni Stati potevano assumere condotte criminali, e come tali si auto-delegittimavano, perdendo, almeno temporaneamente, il diritto alla potestà suprema sui propri cittadini; che esisteva una “comunità internazionale”, ossia uno spazio pubblico collettivo, fatto di persone e relazioni, che andava affiancandosi alle comunità nazionali. Detto questo, lo Stato, nella tradizione giuridica e politica, esercita per definizione i suoi attributi di potere su una porzione determinata di spazio. Come metterla con il web, dove invece, in linea di principio ciò che è illimitata è la nozione medesima di luogo, essendo il circuito delle comunicazioni online uno spazio a sé, per più aspetti autonomo rispetto alle società nazionali, quindi privo di confini? La discussione sui fenomeni di hate speech ruotava – e continua a muoversi a tutt’oggi – intorno a queste coordinate di fondo. La nozione stessa di odio, peraltro, rimane uguale a quella abitualmente utilizzata in altri contesti, indicando, come recita l’edizione online della Treccani, il “sentimento di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la rovina altrui; o, più genericamente, [il] sentimento di profonda ostilità e antipatia”. Il discorso carico d’odio, oppure “odioso” poiché grondante di rabbiosa avversione verso qualcosa o qualcuno, ha una funzione specifica, ossia quella di legittimare stati d’animo ma anche, in successione, atteggiamenti, procedure e infine condotte collettive di natura avversativa, discriminatoria se non persecutoria. Incorpora quindi sia i “cattivi pensieri” che le procedure lesive che da ciò derivano. Nel web l’elemento della diffamatorietà e della lesione dell’altrui dignità rischia di tuttavia di risultare ulteriormente rafforzato, ovvero amplificato, dalla diffusione incontrollata delle affermazioni introdottevi in quella che è divenuta una vera e propria nuova “sfera pubblica”, che si manifesta parallelamente a quella delle relazioni sociali materiali. Si tratta a tutti gli effetti di un habitat, composto di una pluralità di soggetti, a partire dagli stessi “utenti”, per arrivare ad un complesso sistema di legami di reciprocità, dotati di logiche e capacità d’incidenza sulla vita dei primi. All’interno di questo ambiente, virtuale ma anche reale, se non altro perché ricondotto a concrete persone fisiche, che pur esistono anche quando si celano dietro ad un monitor, i fenomeni di hate speech, o di odio online, presentano caratteristiche proprie. La prima di essi è la persistenza, ovvero la possibilità che una singola manifestazione di avversione, legandosi all’architettura della comunicazione, si perpetui nel corso del tempo anche a prescindere da chi l’ha generata. È una sorta di effetto di rifrazione nel lungo periodo. Non a caso, infatti, il secondo aspetto da prendere in considerazione è che le narrazioni sul web hanno un carattere nel medesimo tempo estemporaneo, aggressivo e circostanziato così come una capacità di costituirsi come contenuti che si legittimano da sé, senza bisogno di riscontri o fonti sufficientemente autorevoli poiché verificabili. Ne deriva, nel qual caso, la disposizione a riprodursi come materiale “itinerante”, quand’anche, ancora una volta, sganciato o comunque oramai indipendente dalla sorgente che l’ha originato. Peraltro, i percorsi di hate speech presentano la stessa natura di molte delle altre cose che circolano sulla Rete (gratuità, porosità, trasmissibilità), avendo però l’identico spessore della spazzatura: bassi costi di produzione e alti costi di smaltimento; pervasività e cumulatività, non diversamente da certe discariche non autorizzate, in genere collocate ai bordi di strade più o meno periferiche; capacità di riprodursi autonomamente, malgrado i divieti formali in tal senso, essendo dei veri e propri “luoghi comuni” ai quali si rifanno i loro fruitori (ancora una volta, l’immagine di quei siti materiali dove viene scaricata abusivamente l’immondizia ha una sua plastica efficacia descrittiva). Un terzo elemento, strettamente connesso alla permanenza e alla capacità itinerante, è quello che deriva dall’imprevedibilità e dall’incalcolabilità delle manifestazioni d’odio “virtuale”. Esse si concretizzano a prescindere dalle concrete strategie di contenimento, avendo a che fare con un ambiente di trasmissione la cui regola principe è l’estrema mobilità. Si tratta allora della classica condizione di chi, nel disperato tentativo di evitare che una falla nella diga si allarghi, nel mentre cerca di chiuderla si accorge che molti altri punti di cedimento si stanno manifestando. È nella natura della comunicazione online questa “guerra di movimento”, che mette in discussione, come si affermava poco fa, la giurisdizione degli Stati, soprattutto quando essa si esercita in chiave penale e quindi punitiva. Infatti, ed è un quarto passaggio, la transnazionalità dei messaggi pone seri problemi riguardo al loro filtraggio e ad un eventuale contenimento. Fatto di ordine non solo legale (con la perenne diatriba su dove possa spingersi l’opinione, quand’anche estrema, senza che sia messa a rischio la vita, o la sua qualità, di una persona così come l’ordine pubblico di un’intera società) ma anche sostanziale, laddove il problema rimanda alla pertinenza dei mezzi, degli strumenti come agli stessi attori abilitati alla repressione di una violazione dell’altrui dignità. In ultimo sussiste l’aspetto dell’anonimato, non diversamente da quanto un tempo succedeva con il fenomeno delle denunce non firmate e delle delazioni. La possibilità (alle resa dei conti molto fallace) di potersi celare aumenta la tentazione di manifestare l’odio verso un qualche obiettivo, poiché un atteggiamento di tale genere viene percepito, da chi lo esercita, non solo come una valvola di sfogo ma anche come una espressione del proprio potere di condizionamento ai danni di chi ne subisce gli effetti deleteri. Nei fenomeni di hate speech si misura non solo il pregiudizio, l’avversione precostituita, la rabbiosità esibita e molto altro ancora ma anche un secco abbassamento della soglia morale di responsabilità. Il legame che intercorre tra le catene di “odiatori” è infatti quello della condivisione di un comune risentimento. Il fatto di vederlo riprodotto nel dire altrui non fa altro che convalidarne il finto valore e il presunto fondamento agli occhi (e alle orecchie) di chi lo pratica. L’effetto specchio è anche questo: “se altri come me accettano quanto vado enfaticamente affermando, riprendendone e duplicandone i contenuti, sarà anche perché effettivamente ho una qualche ragione, se non la ragione tout court”. Ed è allora a questo punto che il hate speech si configura come vera e propria contro-narrazione, una sorta di piccolo universo di significati, non importa quanto inattendibili o non comprovati ovvero eticamente inaccettabili, che vive di luce sua propria, alimentandosi della ossessiva reiterazione, maniacale, dei medesimi, obbrobriosi motivi. Da questo riscontro, quindi, qualsiasi prassi di contrasto deve partire, affinché non si trovi invece da subito obbligata nelle secche del pedante (e impotente) pedagogismo, nell’accettazione passiva, nel contrasto imbelle, ossia, in una espressione, nella lotta contro i mulini a vento.
Claudio Vercelli
(5 giugno 2016)