lingua…
Gli italkim che fanno parte della Comunità di Gerusalemme hanno ricevuto una lettera nella quale si offrivano alcune opzioni temporali per l’uso della lingua italiana negli spazi ufficiali della vita comunitaria dello Shabbat, all’interno delle derashot o lezioni sulla parashà.
Le opzioni offrivano: 7 o 10 minuti per l’ebraico, 3 o 4 per l’italiano, tenendo però presente che in casi eccezionali o di bisogno o di tempi concisi la traduzione italiana verrebbe sacrificata.
Non è questa la sede per analizzare l’idea di una perdita linguistica come mezzo di una più facile alyà e l’idea, anacronistica ormai, di un ebraico assoluto, senza altre strade comunicative, lì dove i nostri fratelli venuti dalla Francia, dagli Usa, dalla Gran Bretagna e dal Sud America, usano nelle loro sinagoghe sia l’ebraico che la vecchia lingua diasporica senza porre ansie di misure temporali.
Mi viene da sorridere rispetto a questo nuovo “italianometro”, quando penso che la sede della Hevrà è stato il luogo ospitante della presentazione del lodevole e meritevole progetto di traduzione del Talmud in italiano. Lì, di fronte ai Maestri ed alle Autorità venute dal Bel Paese, l’italianometro non è stato usato, né sono state misurate le parole in italiano che andrebbero poi bilanciate con almeno il doppio delle parole in ebraico.
Vengono in mente molte strade di interpretazione più o meno ironica di questi fatti.
Ricordo di uno splendido brano del 1975 cantato da Angela Luce, che guadagnò il secondo posto a Sanremo, che aveva come titolo: “Ipocrisia”.
Giusto rifugio nel Salmo 115, parte dell’Hallel che canteremo per Shavuot, che stigmatizza: “…Hanno la bocca ma non parlano, hanno gli occhi ma non vedono, hanno le orecchie ma non odono…”.
E non è più questione di minuti, di lingue, di italianometro o ebraicometro, ma di comprensione di dati, fatti, luoghi e tempi culturali, non più misurabili.
Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
(10 giugno 2016)