Senza bisogno di dire “Je suis”

tobia zevi quadratoAbbiamo notato, con rammarico, che il dolore tributato alle vittime del terrorismo non abbia sempre la stessa intensità. Che quel meccanismo di identificazione fittizia che portò il mondo a coniare lo slogan globale “Je suis Charlie” – pare incredibile, ma è solo un anno fa, e nel frattempo quanto sangue! – non scatti se a essere assassinati sono gli ebrei nel Museo ebraico di Bruxelles o nell’ipermercato alle porte di Parigi.
Personalmente, non mi ritrovo in quello slogan. C’è qualcosa di offensivo nel farsi vittima di una strage che non si è subita. Penso a chi piange un parente ammazzato, e ci vuole un bel coraggio a dichiarare un cordoglio analogo dal divano di casa propria. Ma capisco l’intento solidale e l’afflato positivo. Politicamente, ho le stesse perplessità sull’atteggiamento di chi si “fa” povero, escluso, oppresso senza esserlo (celebre a questo proposito un discorso memorabile di Fausto Bertinotti): non c’è bisogno di condividere il destino dell’Altro per battersi in favore dei suoi diritti. Anzi. Si combatte per i suoi diritti non per affetto, o condivisione, ma per giustizia. E c’è una bella differenza.
Tutta questa lunga premessa per constatare che – identificazione o no – nessuno, all’indomani della strage di Orlando, ha esibito lo slogan “Io sono gay”. E ciò sembra sintomo eloquente di un pregiudizio radicato anche dentro noi stessi e i nostri cari.
Peraltro, nei giorni scorsi è stata pubblicata una ricerca sul pregiudizio online condotta da Vox – Osservatorio italiano sui diritti, in collaborazione con le università statali di Milano, Bari e Sapienza di Roma. Su 2,6 milioni di tweet, rilevati tra agosto 2015 e febbraio 2016, considerando 76 termini sensibili riferiti a sei categorie di persone (donne, omosessuali, immigrati, diversamente abili, ebrei e musulmani), 412.716 avevano un contenuto “negativo”. Tra questi ultimi, il 63% conteneva termini a dir poco “offensivi” verso le donne, il 10% verso i migranti, il 10,8% verso gli omosessuali, seguiti da quelli verso gli islamici (6,6%), le persone con disabilità (6,4%) e gli ebrei (2,2%). Le più colpite – e di gran lunga – sono le donne. Nel 2016.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas Twitter @tobiazevi

(14 giugno 2016)