Perdersi nel Talmud
Aprire e sfogliare l’edizione italiana del Talmud è emozionante, quasi ogni parola suona familiare anche all’ebreo non religioso che sono. Ben presto però l’emozione si fa ragione, e l’ammirazione per l’umanità ebraica prevale. Basta mettersi comodi al tavolo ( non è un libro da poltrona né da letto, questo) e leggere con lentezza. Così ho fatto, intimorito eppure a mio agio. Dalla frase di rav Adin Even Israel Steinsaltz che illumina il bianco della prima pagina in poi, ogni riga è già un esempio di ordinata strategia narrativa, di rispetto: la forma È il contenuto di ogni opera. Quando arrivo a pagina XIII, l’asterisco in chiusura del titolo – introduzione essenziale all’opera* – mi porta a leggere la nota che richiama:
“Queste pagine contengono solo brevi note introduttive essenziali per avvicinare il lettore meno esperto. Si rinvia a un volume speciale per la trattazione approfondita degli argomenti qui appena accennati”.
Quando mi risveglio dall’ipnosi che mi ha fermato sulle pagine, mi accorgo di essere arrivato a pagina XL, e che l’asterisco ha ben ragione d’essere: rimandare, infatti, è l’effetto di una lettura che – per quanto solo ‘essenziale’ e adatta al ‘lettore meno esperto’ – è totalizzante: è sia una vera e propria discesa nel pozzo della mia ignoranza, sia un modello di comportamento. La partitura di regole, disquisizioni, racconti fa girar la testa anche solo negli elenchi, e mi rendo conto come e quanto l’approfondimento di un Opera come il Talmud sia il lavoro di una vita. No, di più vite: di quelle dei Maestri nominati e taciuti, degli allievi sconosciuti, dei personaggi evocati e di tutti coloro i quali hanno passato le proprie a leggere questo vero e proprio patrimonio immateriale dell’ebraismo.
Mi faccio coraggio, e provo a seguire il loro esempio, ma ben presto abbandono: mi annoio spesso, mi confondo. Cerco rifugio nei testi esplicativi a fondino grigio, nei racconti. Proseguo per senso del dovere, non voglio arrendermi così presto. Le discussioni mi sembrano sensate ma fini a se stesse; apprezzo la modalità, meno il contenuto; sono preso più dalle allusioni storiche e alle loro implicazioni che dalla materia delle obiezioni. E finalmente, in calce alla pagina che chiude il Capitolo Uno, trovo nella sintesi qualcosa che mi soddisfa pienamente: la conclusione.
Chiudo il librone e riposo occhi e respiro.
Il pomeriggio dello stesso giorno cominciato con la lettura come l’ho descritta, riapro il Talmud, ma comincio dalla fine – come fosse un libro di preghiera. Risalgo le pagine degli Indici, leggo e penso ogni riga. Cerco di dare una voce ai nomi, un volto ai Maestri; gioisco e mi perdo nell’elenco delle “più comuni espressioni idiomatiche”, mi perdo e gioisco nel Glossario, mi confondo e ritrovo nella Tavole di misura. Quando arrivo alla pagina che da il titolo a quanto ho passato ore a leggere, vedo che si chiama Appendici. Richiudo con un profondo senso di inadeguatezza il libro, ma sono più leggero e felice di quando ho cominciato.
Valerio Fiandra