Il prezzo dell’identità
“L’allievo si è impegnato molto per tutto l’anno scolastico …” Chiunque sia mai stato studente, insegnante o genitore sa bene che questo inizio non promette niente di buono e che a quella prima frase seguirà un bel “ma”. Dunque il tenore della nota del Consiglio dell’Assemblea Rabbinica Italiana pubblicata in questo notiziario due settimane fa era evidente fin dal suo esordio: “Desideriamo in primo luogo esprimere la nostra gratitudine per l’impegno disinteressato di tutti i Consiglieri e in particolare al presidente uscente … per la sua lunga militanza disinteressata e appassionata a favore dell’ebraismo italiano.” E in effetti il seguito della nota si è mantenuto fedele alle promesse, con parole molto dure e a mio parere inspiegabilmente ingenerose. Altrettanto inspiegabilmente la nota, che pure è molto dettagliata nel prospettare ben precise priorità e idee ben precise sul futuro dell’Ucei, non contiene un accenno neppure fugace alle risorse economiche con cui tutto ciò si potrà realizzare e al modo di reperirle. Una volta di più i pregiudizi comunemente diffusi sugli ebrei si dimostrano totalmente falsi: il mondo ebraico è talmente poco attaccato al denaro che non ne parla neppure quando sarebbe necessario.
Educazione ebraica, scuole, Talmud Torah, progetti per i giovani, assistenza: tutte queste cose hanno un costo, e sappiamo che i bilanci delle nostre Comunità e dell’Ucei non sarebbero in grado di sostenerlo autonomamente. La sopravvivenza dell’ebraismo italiano così come lo conosciamo oggi dipende dall’8 per mille, cioè dal mondo esterno. Forse oggi molti di noi non ricordano come fosse l’ebraismo italiano prima dell’8 per mille. Io forse ho una sensibilità un po’ diversa su questi temi perché mia madre in quegli anni era stata per un mandato (dal 1990 al 1994) assessore al bilancio dell’UCEI: ricordo bene il senso di frustrazione di un’Unione che dipendeva dai contributi (irregolari) delle Comunità, che ci rappresentava verso l’esterno ma non aveva alcun mezzo per comunicare con i singoli ebrei italiani, che non poteva permettersi nessuna iniziativa culturale autonoma di un certo respiro. Un’Ucei come quella di oggi allora sarebbe sembrata semplicemente un bel sogno.
Al di là di qualunque considerazione ideologica mi pare che si dovrebbe tener conto di questo fattore quando si ragiona di apertura e chiusura di fronte al mondo esterno. Forse qualcuno crede che le decine di migliaia di italiani che ci sostengono con la loro firma continuerebbero a sostenere anche un ebraismo chiuso in se stesso e poco comunicativo. Io personalmente ne dubito.
Oppure, se volessimo, potremmo anche decidere di tornare ad avere Comunità orgogliosamente autonome, che non dipendano dall’esterno e si fondino esclusivamente sul contributo degli iscritti e sul volontariato (come è accaduto in epoche passate, in cui talvolta anche i rabbini si mantenevano svolgendo altre professioni). Personalmente ritengo che questa soluzione non sarebbe affatto auspicabile, e che determinerebbe un grave impoverimento culturale. Qualcuno forse ha opinioni diverse. Trovo comunque piuttosto bizzarro che non ci si ponga neppure il problema.
Peraltro a me pare che le politiche di comunicazione volte a farci conoscere di più anche dal mondo esterno abbiano rafforzato, e non indebolito, la nostra identità. Confrontando l’ebraismo italiano di oggi con quello di dieci anni fa mi sembra davvero difficile e, come ho già detto, molto ingeneroso affermare il contrario.
Anna Segre
(17 giugno 2016)