Negare e proibire
Dunque il “negazionismo”, per meglio dire ciò che verrà definito come tale dalle sentenze che nei tempi futuri saranno sollecitate da eventuali procedimenti giudiziari posti in essere, diventa un reato nell’ordinamento penale italiano. Grazie a 237 sì, 5 no e 102 astenuti la Camera dei deputati, dopo una lunga navetta con il Senato, ha deliberato in terza lettura, in tale senso. Più precisamente, nel codice penale viene introdotto il comma 3 all’articolo 3 della legge numero 654 (e successive modifiche, come di prassi si ricorda nel linguaggio giuridico) del 13 ottobre 1975. Il comma dispone testualmente che si applichi la pena “da due a sei anni se la propaganda, ovvero l’istigazione e l’incitamento commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah, o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale”, ratificati ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232. In altre parole, la negazione dell’evidenza di fatto, quando questo stesso fatto rimanda a quelle violenze efferate, sistematiche, continuative e intenzionali per come sono identificate e definite dalla carta fondamentale della Corte penale internazionale, diventa un’aggravante di pena delle fattispecie, già esistenti, della discriminazione razziale e della discriminazione a stampo xenofobo (ossia, la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, l’istigazione e l’incitamento alla discriminazione e alla violenza su base razziale, etnica, nazionale e religiosa), già configurate dalla legge Mancino. A stretto giro di interpretazione giuridica, quindi, la soluzione adottata dal legislatore italiano non configura il negazionismo in quanto specifica (e a sé stante) fattispecie di reato, com’è invece accaduto in altri paesi, limitandosi piuttosto a introdurre un’aggravante a una tipologia di reato già esistente. Da rilevare, tra le altre cose, il rimando nella lettera stessa della norma alla Shoah come, al medesimo tempo, evento specifico e paradigma di altre tragedie. Metro e misura, per intenderci, di una pluralità di fenomeni. Adeguandosi alle sollecitazioni e quindi alle prescrizioni provenienti dall’Unione europea e dalla Commissione, l’Italia procede nell’adozione di una legislazione che già in altri paesi comunitari sussiste già da qualche anno. Viene da pensare che in tale modo si chiuda (per così dire) il cerchio che era stato aperto dall’istituzione del Giorno della Memoria, anch’esso, per più aspetti prodotto di un clima continentale, con la concertazione di una serie di pubbliche attività, a volte sanzionate da leggi specifiche, in altri casi frutto di consuetudini consolidate, comunque indirizzate a creare, o quanto meno ad alimentare, un “comune sentire” tra le popolazioni. Questa esigenza, peraltro, si è fatta tanto più rilevante dopo il 1989, con la caduta del muro di Berlino e il crollo dei regimi comunisti. Più che rimandare alla sola lotta contro il razzismo, il pregiudizio e l’antisemitismo in quanto tali, o comunque a specifiche preoccupazioni in tale senso, l’insieme di deliberazioni e di decisioni sia politiche che giuridiche succedutesi in questi venticinque anni sembra puntare semmai alla costruzione di un giudizio condiviso rispetto al passato, dove al centro della polemica, e quindi dell’azione di contrasto, c’è il rifiuto dei frutti velenosi di ciò che, più o meno propriamente, è definito sotto il termine di “totalitarismo”. La democrazia neoliberale è letta come un’immagine capovolta (e oppositiva) di quest’ultimo. Non è quindi tanto un definitivo regolamento di conti con quello che è avvenuto ma una preoccupazione riguardo al presente e ai futuri sviluppi quella che sembra ispirare le ragioni di fondo di politici e legislatori. Poiché in questa necessità si vede, in controluce, anche il rapporto non facile con l’Europa a venire, ad esempio quella costituita da immigrati che, in grande parte, provengono da società e paesi che poco o nulla ritengono di avere a che fare con i genocidi del Novecento (quand’anche, a conti fatti, non sia propriamente così). Peraltro, in tale modo facendo, l’Unione europea rivale le sue incertezze e i suoi timori, a partire dall’angoscia di non essere compresa nel suo sforzo di rielaborare i trascorsi continentali. Il rischio, tuttavia, è che passi la percezione che ciò che essa sa offrire in questo campo sia essenzialmente una miscela tra prescrizione (“dovete essere”) e divieto (“non potete essere”). Se l’odiosità del negazionismo è evidente perché conclamata, nel senso di esibita e rivendicata, rimane il problema della sua pervasività, fenomeno tipicamente culturale (nel senso della somma degli atteggiamenti e dei convincimenti dominanti), difficilmente governabile con la sola sanzione penale. Chissà perché, detto questo, viene da accostare (sia pure con tutto l’arbitrio del caso ma evitando improprie assimilazioni), se non altro per l’involontaria sincronia dei tempi, la deliberazione del Parlamento italiano alla scelta editoriale operata da un diffuso quotidiano nazionale, che ha associato alla vendita delle copie del suo giornale la diffusione di una edizione “critica” del Mein Kampf di Hitler. Ben sapendo che una parte dei suoi acquirenti non l’ha comprata per spirito critico, ossia per conoscenza finalizzata ad un migliore contrasto del fenomeno nazista, ma per l’idea di “proibito” (e quindi di scandaloso, al limite del pruriginoso) che quel testo porta con sé nella percezione dei tanti. Se ne è parlato molto nei giorni trascorsi. Lo scandalo, come l’osceno, è parte integrante delle nostre società, basate su un modalità discutibilissima di “politicamente corretto”. Improbabile che se ne faccia una lettura critica (trattandosi poi di un polpettone micidiale, i cui ingredienti sono tenuti insieme solo dalla furia antisemita e dalla visione apocalittica della storia), mentre diventa falsamente liberatorio il potere dire: “ce l’ho anche io!”. Va ricordato, tra le note di corredo, che la potenziale diffusione alla luce del sole del volume programmatico del dittatore tedesco deriva anche dallo scadere del vincolo sui diritti d’autore. Il problema della funzionalità della proibizione, tanto più in società che hanno definito la libertà individuale come un perimetro fondamentale dell’identità condivisa, rimanda quindi all’estrema problematicità del rapporto tra “totem e tabù”, laddove introducendo i secondi si rischia di sancire che essi non contengono abomini dello spirito, come nei fatti pur avviene, bensì solleticanti anticonformismi, ai quali, prima o poi, bisognerà pure tornare a dare libera voce. Un rischio, quest’ultimo, che non ci si può permettere di correre.
Claudio Vercelli
(19 giugno 2016)