Perché la fuga dei cervelli è un bene
“Vorrei essere libero, libero come un uomo” cantava Giorgio Gaber, ricordandoci che “libertà è partecipazione”, è condivisione. Quella stessa libertà, di poter condividere le proprie idee, le proprie capacità è la stessa che secondo l’israeliana Orly Lobel, docente nella facoltà di legge dell’Università di San Diego ed esperta di diritti della proprietà intellettuale, rivendicano i talenti di tutto il mondo. Non è un caso se il suo libro, che negli Stati Uniti e non solo ha raccolto molte critiche favorevoli, si intitola Talent wants to be free, il talento vuole essere libero. A colloquio con Pagine Ebraiche, Lobel ha spiegato il perché della sua tesi: “È una questione di prospettiva. Quello che di solito chiamiamo fuga di cervelli, che so che per voi in Italia è un problema ma è anche in Israele è parzialmente vissuto come tale, viene percepito come una perdita. In realtà nel libro spiego, dati di economisti alla mano, come non lo sia. E come sarebbe meglio parlare di circolazione di cervelli”. Lei stessa peraltro ne è un esempio. “Io sono israeliana. Ho fatto l’esercito ed ero parte dei servizi di intelligence. So cosa significa dover custodire i segreti ma so anche cosa vuol dire lavorare in squadra, condividere. Ed è con questa formazione che sono partita per gli Stati Uniti. Ora ho una cattedra qui a San Diego ma non vuol dire che non ho più legami con Israele, anzi. Se sulla carta potrei essere un cervello in fuga, in realtà ho continuato ad avere un legame con il mio paese tanto che ho un ufficio a Tel Aviv dove tengo lezioni all’università. Ho un piede qui negli Stati Uniti e uno in Israele”. È questo il modello secondo Lobel che crea maggiore valore sia nel mondo accademico sia in quello aziendale, la creazione di una rete globale di persone che viaggiano e mettono in contatto mondi diversi, fanno circolare le loro idee.
Un modello di cui proprio Israele è un esempio come ha sostenuto anche Federico Rampini (nell’immagine – Foto di Corrado Poli), corrispondente dagli Stati Uniti per Repubblica, davanti alle centinaia di persone venuto ad ascoltarlo all’ultimo festival dell’Economia di Trento. “Il caso di Israele mi interessa – ha spiegato il giornalista che vive a San Francisco, a due passi dalla culla delle idee, la Silicon Valley – perché mi chiedo se noi italiani non dovremmo iniziare a ragionare nei loro termini, invece che porci obiettivi irrealistici come far tornare i nostri talenti chiedendo loro di abbandonare tutto quello che hanno ottenuto e conquistato negli Stati Uniti. Perché non fare un salto mentale e pensare come fanno gli israeliani: i nostri cervelli ,che si trovano così bene a San Francisco restino là ma aiutiamoli ad avere una gamba anche da noi”. Per Rampini, la capacità degli israeliani è quella descritta da Lobel: non tagliano i ponti con il proprio paese, gli creano. Ed è forse per questo che, come rilevava il giornalista, “Israele è uno dei pochissimi Paesi al mondo ad essere riuscito a ricreare in casa la realtà della Silicon Valley”. Senza dimenticare che la Start-up Nation si è costruita grazie a ingenti “investimenti statali e alle commesse militari. Dietro molta dell’innovazione israeliana ci sono infatti i finanziamenti per la Difesa, per la sicurezza, per lo spionaggio. Non è un caso ad esempio – ha sottolineato Rampini – che sia stata una società israeliana ad aiutare l’Fbi a entrare nel famoso iphone dei due terroristi di San Bernardino”.
Tornando ai talenti. La chiave per interpretare il successo israeliano e non solo per Lobel sta nella capacità di creare rete, di mettere in circolo e liberare le informazioni. Tanto che la sua proposta alle aziende è quella di cambiare radicalmente atteggiamento nei confronti dei brevetti. “Le società spendono milioni di dollari per proteggere i propri segreti aziendali. Spesso, rivelano i dati, spendono di più per questo che nell’innovazione danneggiando di fatto i propri interessi. Ne ho parlato di recente in un’incontro in Corea del Sud con la Samsung”. D’altra parte, sottolinea Lobel, è difficile che le grandi multinazionali come Google o Facebook, che di fatto hanno il monopolio, non si impegnino a mantenere il loro status quo. “Bisogna cambiare la cultura e lo dimostra il fatto che secondo le statistiche internazionali il 78 per cento dei brevetti rimane negli scaffali. Non viene commercializzato” e quindi rimane a prendere la polvere invece che essere valorizzato. Secondo la docente israeliana si è sviluppato un sistema iperprotettivo che è diventato di fatto un ostacolo per lo sviluppo o che comunque lo rallenta. “Per valorizzare il capitale umano, vero fulcro delle aziende, è necessario che questo entri in contatto con altre realtà che si creino network e in questo la Silicon Valley ne è una dimostrazione”. Non è un caso che Lobel citi Aaron Swartz, giovane ebreo americano diventato celebre per la sua battaglia per la creazione di una libreria accademica open source. Una battaglia che si scontrò con le rigide regole americane e che portò Swartz a rischiare 35 anni di carcere. Purtroppo la sua storia è finita con un tragico epilogo.
Diventato una sorta di eroe della “libertà di connessione” (titolo di un convegno di Swartz a Washington), rimarrà schiacciato dal sistema e sceglierà di togliersi la vita. Nel documentario The Internet’s Own Boy: The Story of Aaron Swartz si comprende il senso della sua lotta: a un certo punto uno scienziato racconta di aver trovato la cura per una malattia sfogliando una libreria accademica resa open, cui altrimenti non avrebbe avuto accesso. Le idee di Lobel non sono quelle di Swartz, ma anche la sua è una battaglia per la libertà delle idee. Perché “la libertà non è uno spazio libero. La libertà è partecipazione”.
Daniel Reichel
(26 giugno 2016)