LOTTA ALL’ANTISEMITISMO Alle origini del pregiudizio
“Una fumata bianca si leva dal comignolo del Vaticano – scrive provocatoriamente Yehudah ‘Ammichay nella sua poesia Mi-kol ha-‘ammim (“Tra tutti i popoli”, 1942): i cardinali all’interno sanno già chi è il papa eletto. Una fumata nera si leva dal comignolo di Auschwitz: è ancora incerto chi sia il popolo eletto!” Fine Anni Ottanta. Ricordo distintamente una delle prime scolaresche in visita al Beth haKnesset di Bologna. Faceva gli onori di casa un giovane della Comunità, allora intorno alla ventina. Rispondeva con sagacia alle domande talvolta spregiudicate poste da ragazzi di età di poco inferiore alla sua. “Perché siete tanto odiati?” E di rimando: “A noi lo chiedete? Dovreste piuttosto domandarlo agli antisemiti stessi!” Quel giovane promettente di allora, Emanuele Ottolenghi, è oggi uno storico e politologo di fama internazionale. Un altro studioso, Avi Beker, diplomatico e docente di scienze politiche in prestigiose università, ha recentemente pubblicato un saggio di grande portata, dal titolo: Mi-hu ha-‘am ha-nivchàr, “Chi è il popolo eletto?”. Prendendo le mosse dal film “La passione di Cristo” di Mel Gibson, egli ripercorre la storia del “più grande conflitto di idee nella storia”, ciò che a suo parere sta alla base dell’antisemitismo in ogni epoca e luogo: l’idea dell’elezione di Israele, appunto. Un mito che ha generato due forme di reazione: la volontà di cancellare fisicamente il popolo d’Israele da un lato e il proposito di sostituirsi a esso nell’elezione relegandolo in secondo piano dall’altro. L’analisi di Beker esamina Rabbì ‘Aqivà, i filosofi ebrei della Spagna medioevale, i Padri della Chiesa, Maometto, Lutero fino all’età moderna: Benjamin d’Israeli, la Shoah, Rav Kook e Giovanni XXIII, con una dovizia senza pari di fonti ebraiche e non. Unico difetto del libro: essere scritto in ebraico, cosa che per il momento lo rende fruibile a una cerchia ristrettissima di lettori. Mi auguro, se ciò non è ancora stato fatto, che questo fondamentale studio abbia presto una traduzione integrale in inglese. L’intuizione di Beker non è peraltro nuova. Un passo del Talmud (Shabbat 89a) identifica l’etimologia di Sinai con sin’ah (“odio”), implicando che il dono della Torah che da un lato ci ha nobilitato agli occhi delle nazioni, dall’altro è stato per noi fonte di non pochi problemi relazionali (cfr. ‘Iyun Ya’aqov ad loc.; Rashì a Eykhah 1,21). Non è facile trovare la risposta a un enigma ormai plurisecolare. A indirizzarci se non altro verso una migliore comprensione del problema è il commento No’am Elimelekh alla Torah, opera di R. Elimelekh di Lizensk della scuola del Ba’al Shem Tov, il fondatore del chassidismo. Utilizzando un linguaggio cabalistico di grande fascino sul lettore, egli dice che il Talmud ci vuole far capire che esiste nelle nazioni del mondo una “scintilla sacra” (nitzòtz qadòsh) che aspira a essere elevata. È compito di noi ebrei cogliere questa scintilla e gestirla al meglio. Se noi non riusciamo in questo intento saremo sempre oggetto di odio. Il commento non aggiunge altri particolari utili alla sua applicazione, né ci dà ricette concrete, ma ci mette in guardia. L’antisemitismo non è solo un fenomeno storico, né puramente fisico. Ha radici metafisiche, su cui tuttavia è in nostro potere agire per il bene nostro e dell’umanità. Venire a patti con le situazioni alla ricerca di facili compromessi, come si è sempre fatto, non garantisce la soluzione definitiva. Si pensi alle varie forme di shtadlanut (lett. “interventismo” da parte di correligionari influenti sulla pubblica autorità, a favore della Comunità o di singoli individui) praticate nei secoli e allo stesso dialogo interreligioso che pretende di esserne la forma più aggiornata. Ma neppure l’isolamento a oltranza, come se le altre nazioni non esistessero a dispetto del loro risentimento, può essere la ricetta ideale. Il No’am Elimelekh dà un’interpretazione altamente creativa del versetto: “H. combatterà per voi e voi ve ne starete zitti” (Shemot 14,14). Egli ne capovolge il significato, complice il senso diametralmente opposto che può assumere in ebraico la preposizione lakhèm e traduce: “Quando H. combatterà contro di voi…”. Ma anche tacharishun ha un doppio significato. Da un lato allude certamente a una attesa silenziosa, come in Bereshit 24,21. Ma il verbo charàsh ha pure un’altra valenza, assai diversa, propositiva: arare, preparare il terreno per una nuova semina, una nuova ‘avodah, intesa anche questa nel doppio senso di lavoro agricolo e di ‘Avodat H., “servizio Divino”. Non c’è altra via per cogliere il nitzòtz qadòsh delle nazioni del mondo che dedicarci interamente al servizio di H. per primi. “Quando siete minacciati, continuare ad arare” il vostro campo, a coltivare la vostra spiritualità, con coerenza interiore, in modo disinteressato, facendone capire agli altri la grandezza. Verrà finalmente il giorno in cui tutti comprenderanno quale servizio il Dono della Torah, che ci apprestiamo a ricordare a Shavu’ot dopo 3328 anni, abbia reso all’umanità intera. Sono francamente poco convinto dallo slogan: “Non c’è più teologia dopo Auschwitz”. Fin troppo comodo! E anche l’idea che l’antisemitismo sia solo un problema degli altri mi persuade sempre meno, nonostante tutto. Portare avanti la Torah e l’Ebraismo è la grande sfida che ci attende nel secolo successivo alla Shoah. Nel rispetto di tutti coloro che sono caduti ‘al qiddush ha-Shem, “per la Santificazione del Nome”. Anzi, proprio per loro: affinché il loro sangue non sia stato versato invano.
Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche, giugno 2016
Nell’immagine: rotolo della Torah, Egitto, XIX-XX secolo, Museo di Londra