ORIZZONTE EUROPA Una catastrofe collettiva
Il libro di Jan Tomasz Gross con Irena Grudzinska Gross, Un raccolto d’oro. Il saccheggio dei beni ebraici (Torino, Einaudi, 2016, pagine 126, euro 16), si apre con una foto: contadini e soldati, donne e uomini, seduti in circolo per una foto dopo il raccolto. Solo che a essere raccolti, e disposti ordinatamente in circolo, sono teschi e altre ossa umane. La foto è stata scattata nella seconda metà degli anni Quaranta, cioè nel dopoguerra, dall’abitante di un villaggio vicino a Treblinka, il campo di sterminio dove furono inviati gli ebrei del ghetto di Varsavia e di altri ghetti polacchi, in cui fra il 1942 e il 1943 furono gassati ottocentomila ebrei. Essa ritrae, con ogni probabilità, un gruppo di “scavatori” del villaggio alla fine di una giornata di lavoro. Costoro scavavano per cercare le ossa degli ebrei e per appropriarsi di denti d’oro scampati alla ricerca dei nazisti, di altri beni restati nascosti nei cadaveri. Insomma, cercavano l’oro degli ebrei. I soldati che posano accanto a loro partecipavano, con ogni probabilità, alla ricerca. Da questa foto muove la ricerca dello storico polacco, professore a Princeton, Jan Tomasz Gross, già autore di importanti studi su questi temi, fra cui I carnefici della porta accanto, sul massacro della comunità ebraica di Jedwabne da parte non dei nazisti ma dei polacchi, un libro che ha suscitato grande eco da parte del pubblico e degli studiosi. Le pesanti accuse di antisemitismo che Gross ha rivolto alla società polacca nei suoi libri, a partire da quello su Jedwabne, hanno suscitato aspre polemiche sia negli Stati Uniti che, soprattutto, in Polonia, dove Gross è stato denunciato per aver “offeso la Polonia” nell’ottobre del 2015, in seguito all’uscita di questo suo ultimo libro, Un raccolto d’oro. Le ricerche, e non solo quelle di Gross, confermano un fatto noto e diffuso, ma scarsamente documentato, quello della partecipazione di una parte della popolazione polacca allo sterminio degli ebrei, accompagnata da un saccheggio dal basso dei loro beni: l’oro appunto, ma anche cose ben meno preziose, come scarpe, vestiti, oggetti di cucina, materassi e coperte. Questo dato nulla toglie al fatto che la Polonia è, in assoluto, il Paese con il maggior numero di Giusti, oltre seimila. Ma è anche il Paese in cui, fondandosi su un antisemitismo diffuso, già emerso ben prima dell’invasione, la collaborazione delle persone “comuni” alla Shoah fu più vasta. Gross ripercorre questa storia, la storia cioè del saccheggio dei beni e quella a esso collegata dei massacri di ebrei dal basso: quella di Jedwabne, del 1941, e altri analoghi in due dozzine di cittadine nella regione di Bialystok, documentati nei referti della Resistenza polacca: «L’arrivo delle truppe tedesche — si leggeva in un rapporto del 1941 — ha scatenato una spaventosa ondata di violenze ai danni degli ebrei, condotta dall’esercito con una significativa partecipazione della popolazione locale». Inoltre, ci fu una significativa adesione di cittadini polacchi — ma non solo, bensì anche di ucraini, lituani, lettoni, estoni, russi e bielorussi — alle formazioni ausiliarie che coadiuvarono i nazisti nella caccia agli ebrei e nel loro sterminio. Il fenomeno ricorre anche nell’Europa occidentale, ma il quadro d’insieme è quello di una partecipazione più o meno vasta della gente comune allo sterminio. La domanda giusta da porsi, secondo Gross, non è quella di quanti siano stati gli ebrei assassinati dai loro concittadini polacchi, ma quella di quanti siano stati i polacchi ad aver partecipato alle uccisioni di ebrei. E quanti siano stati intorno agli assassini materiali, quelli che vi assistettero, approvarono il massacro, ne portarono memoria. E lo storico sottolinea che le conseguenze furono devastanti, perché segnarono le comunità locali per anni nella condivisione di atti delittuosi, ne tennero viva la memoria. Insomma, una “catastrofe collettiva” di cui ancora, dopo generazioni, sono vive le conseguenze. Ugualmente massiccio fu il saccheggio dei beni degli ebrei. Secondo Emanuel Ringelblum, lo storico e archivista del ghetto di Varsavia che salvò tanti documenti dalla distruzione e morì assassinato nel marzo 1944 dopo essere sfuggito alla repressione della rivolta del 1943, «gli ebrei vengono considerati “defunti in licenza” che prima o poi periranno. Nella maggior parte dei casi, quasi il 95 per cento, né merci né effetti personali sono stati restituiti. Un dato impressionante, che ci riporta a un dato mentale: gli ebrei sono considerati già morti, ed è quindi in qualche misura lecito impadronirsi di quello che possiedono. Anzi, è una misura patriottica, che evita che i loro beni finiscano in mano tedesca. Di qui anche l’indifferenza mostrata rispetto a quelle ossa anche dopo la guerra, quando Hitler era già stato sconfitto. Questa indifferenza, ben rappresentata nella fotografia degli “scavatori”, ci dice che quelle ossa non appartenevano ai loro morti: «Dispongono quei teschi in fila come si dispongono i frutti del raccolto, zucche o cocomeri», scrive Gross, ricordando anche le cataste di teschi della Cambogia di Pol Pot. Non dobbiamo infatti dimenticare che questa collaborazione coi nazisti si prolungò oltre la fine della guerra. Che sono molte le voci, documentate qui o in altri studi, che parlavano della necessità di compiere ciò che Hitler aveva lasciato incompiuto, lo sterminio degli ebrei. Che a Kielce, nella regione dove alcune centinaia di ebrei furono assassinati nel corso della guerra dalla popolazione polacca (casi poi processati dai tribunali), il 4 luglio 1946 una quarantina di ebrei furono linciati dalla popolazione perché accusati di aver ucciso un bambino cristiano (che era semplicemente rimasto a dormire da un amico). La vecchia accusa di omicidio rituale divampava così sulle ceneri della Shoah, non senza provocare l’esodo della maggior parte degli ebrei rimasti in Polonia. Moltissimi altri, come sappiamo, furono costretti ad andarsene nel 1968, in seguito all’affermarsi dell’antisemitismo di Stato nella Polonia comunista.
Anna Foa, Osservatore Romano, 29 giugno 2016