Pagine Ebraiche – Dossier Sport
“Il calcio? Per noi è una fede”
Sostiene rav Jonathan Sacks (nell’immagine), un gigante del pensiero ebraico contemporaneo: “Il calcio è molto più di un semplice gioco. Il calcio, per molti versi, è come la religione. Ha il suo imprescindibile aspetto di ritualità perché essere tifosi significa fondare la nostra identità su un qualcosa più grande di noi. Ma è anche un intenso momento di fede, perché si tratta di sostenere la tua squadra anche quando le convinzioni più profonde che puoi aver maturato sono messe a dura prova dalle circostanze contingenti. Però quando arriva il goal della vittoria, finalmente, ci si stringe in un abbraccio collettivo per raggiungere uno stato di trascendenza”. Parole che sono musica per le orecchie dei tanti colleghi italiani che, come il rav Sacks (acceso supporter dell’Arsenal) ogni fine settimana seguono con trepidazione le gesta dei propri beniamini. “Conti, Di Bartolomei, Penzo, Prati, Spadoni…”. Rav Adolfo Locci, 48 anni, romano, dal 1999 rabbino capo a Padova, elenca in libertà i nomi di chi l’ha fatto innamorare (ragazzino) della Magica. Autentici pezzi di storia giallorossa. Anche se il cuore, ci spiega, batte almeno con la stessa intensità per il Pupone, il grande protagonista dell’ultimo ventennio. “Totti batte tutti, senza alcun dubbio”.
L’esordio allo stadio risale agli Anni Ottanta, in occasione di un Roma-Inter piuttosto acceso in cui Evaristo Beccalossi, con un intervento scomposto, manda sul lettino del medico sua maestà Falcao (costretto poi a saltare varie partite per l’infortunio subito). Di quel periodo rav Locci ricorda con emozione la serata del secondo scudetto romanista, nella stagione ’82-83. L’appuntamento come tante volte accade nei giorni di festa cittadina è al Circo Massimo, raggiunto dopo il servizio di arvit (la preghiera serale quotidiana) al Tempio di via Balbo. Una ventina di anni dopo, per il terzo tricolore, mentre i romani si incontravano negli stessi luoghi per un’altra grande celebrazione collettiva, il rav si aggregava col pensiero dal più sobrio Prato della valle, a Padova, assieme “a un altro paio di romanisti: un fatto esotico da queste parti”. Buon calciatore, il rav ricorda inoltre con orgoglio le molte partecipazioni alla Coppa dell’Amicizia, storico torneo degli ebrei romani che da sempre porta sul campo diverse anime e diverse identità comunitarie. E grazie alla coppa, e al clima di condivisione che si respirava, è consapevole “di aver avvicinato tanti giovani alla propria ebraicità”.
Per rav Roberto Colombo, 56 anni, veneziano, direttore delle materie ebraiche nella scuola di Roma, non c’erano molte possibile scelte in gioventù. O accontentarsi dei modesti orizzonti della squadra di calcio locale, oppure guardare verso lidi di maggior gloria. Fu la tata, quando aveva tre anni, a influenzarlo fatalmente: tifava Milan e non faceva niente per nasconderlo. E così la scelta fu inevitabile. “Il mito dell’infanzia – racconta – era Gianni Rivera, formidabile per classe, eleganza, incisività. Da adulto invece ho provato emozioni fortissime con il primo Milan di Berlusconi, quello degli olandesi. Gullit, Rijkaard, Van Basten. Che squadra avevamo! E chi la ritrova gente così…”. Il Milan, un grande amore trasmesso anche ai figli, è stato e continua ad essere anche un momento di sospensione dall’intensità, ma anche dalle beghe, della vita comunitaria. “Quante volte mi ha tirato su il morale in passato, regalandomi qualche ora di spensieratezza. Certo non si può dire lo stesso oggi, condannati come siamo a un’epoca di modestia calcistica” commenta il rav. Il rito resta lo stesso. Ed è sacro. Se le circostanze lo permettono, infatti, la partita la si guarda sempre e comunque. E pazienza, sospira rav Colombo, se una volta si vincevano le grandi coppe e oggi si battaglia con il Sassuolo (perdendo, oltretutto) per un posto in Europa League.
Ben altre le prospettive per Umberto Forti, 65 anni, veneziano come Colombo ma di diverse vedute pedatorie. L’assistente al culto della sinagoga di Firenze, città tradizionalmente ostile a questi colori, è infatti bianconero. Un amore viscerale che Forti ha sempre esibito con orgoglio, pronto a ricambiare gli inevitabili sfottò di gran parte della Comunità con battute e ironie proverbiali. Son pochi i rabbini juventini in circolazione. In Italia, dove ad esercitare questa funzione sono soprattutto dei romani, addirittura nessuno. Così almeno ci risulta. Umberto sorride: “Mi consolo pensando che un illustre maestro come rav Menachem Artom (1916-1992), uno dei più grandi rabbini del Novecento, lo è stato. E poi con che intensità: era davvero un gran tifoso”.
Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked
Pagine Ebraiche luglio 2016
(1 luglio 2016)