Senza via d’uscita?
Non è che ci si possa dire contro un metodo e delle regole, altrimenti sottoscritte e comunemente praticate, solo ed esclusivamente quando l’uno e le altre non producono l’effetto desiderato. Al riguardo, Bertold Brecht soleva dire sarcasticamente: “Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo“. Si tratta della risposta che il drammaturgo tedesco aveva dato alle parole del segretario generale dell’Unione degli scrittori della Repubblica democratica tedesca il quale, di fronte alle rivolte degli operai di Berlino Est nel 1953, aveva perentoriamente affermato: “La classe operaia di Berlino ha tradito la fiducia che il Partito gli aveva riposto. Ora dovrà lavorare duro per riguadagnarsela!“. Così, per venire a noi, anche nel caso della Brexit. Le spaccature territoriali e generazionali nel voto, quanto la maggioranza ristretta di assensi ottenuta alle urne da coloro che hanno perentoriamente sostenuto la necessità per il Regno Unito di congedarsi dall’Unione, peraltro nulla tolgono alla validità del risultato finale. In democrazia si contano le teste, non il loro peso. Semmai sarebbe tartufesco, se non truffaldino, trascinarla per le lunghe, trasformando la complessa ma comunque necessaria uscita degli inglesi in un lungo congedo dai tratti agonici. Già ci stanno pensando, in queste ore, i politici britannici, con la patetica pochade messa in scena da un David Cameron dimissionario, un Boris Johnson refrattario, un Jeremy Corbyn sfiduciato e surreale, astanti e controfigure in attesa di raccogliere il pasticcio generato dal voto come una specie di frutto maturo da consumare golosamente. Se la Germania si dovesse disporre in altro modo dalle occorrenze del caso (così come parrebbe essere disposta a fare, dando credito ad alcune dichiarazioni), consentendo quindi che le trattative si protraggano oltre il limite della decorosa accettabilità, allora il segno che tutto (o quasi) è una finzione ne risulterebbe drammaticamente rafforzato. Quanto meno dinanzi agli elettori del Continente, che sempre più spesso fremono, esprimendo crescenti insoddisfazioni ma anche lievitanti intolleranze. A tale riguardo è bene rammentarsi che non esistono i partiti ‘populisti’, in sé brutti, sporchi e cattivi, perché il popolo è manipolabile. Semmai è l’esasperazione della collettività ad incanalarsi verso un voto che è di ‘protesta’ in quanto non esistono – o si dice che non siano praticabili – proposte alternative. Negli interstizi di questo stallo collettivo, nello spazio di una terra di nessuno dove si afferma che nulla sia più modificabile per volontà e partecipazione popolare, a fronte del declassamento di una parte del ceto medio (il vero cuore pulsante della crisi che stiamo da lungo tempo vivendo nel Continente), matura e fermenta non solo lo scoramento ma il senso di smarrimento che si fa poi rabbia e, quindi, rifiuto. La somma di molte rabbiosità, dettate non da stoltezza bensì da senso di impotenza, nonché di numerosi smarrimenti, dovuti non a incoerenze personali ma a incongruità sistemiche, produce la cosiddetta “antipolitica”. Un termine a dire poco inappropriato perché finge di fotografare un dato oggettivo quando invece è solo il rimando ad un modo per cercare di esorcizzare la diffusa paura di essere espropriati del diritto al proprio futuro. Che poi gli imprenditori politici del livore utilizzino tale materia è fatto non solo prevedibile ma ovvio, costituendo una vecchia prassi, che sussiste da quando la collettività ha maturato il diritto di sanzionare con il proprio voto l’assenso o il dissenso dalle scelte (a volte dall’assenza di scelte, come frequentemente capita oggi) operate dalle classi dirigenti. Queste ultime, peraltro, sembrano sempre più spesso afasiche e chiuse in se stesse. Una sorta di autismo politico. Da un lato promettono le suggestioni dello storytelling, il racconto di un mondo tanto desiderabile quanto poco o nulla possibile con gli strumenti concretamente a disposizione. Le parole magiche (“riforme”, “flessibilità”, “mutamento” e molte altre ancora) si piegano nella bocca di chi le pronuncia stancamente, per l’ennesima volta, senza neanche più raccogliere un qualche credito che non sia quello che gli deriva dall’obbligo di dire qualcosa, purchessia. Dall’altro, le élite che contano, e che spesso non stanno in politica bensì in altri ambiti della complessa rete dei rapporti di forza societari, paiono essere non solo distanti ma sostanzialmente indifferenti ai segnali che invece arrivano da quei territori che sono sottoposti ai moti tellurici del cambiamento. All’indifferenza di “quelli che possono”, reale o figurata che sia, corrisponde la diffidenza di chi, essendo vincolato agli spazi ai quali appartiene, subisce gli effetti dei tanti colpi di frusta ricevuti in successione. C’è una distanza radicale, e spesso incompresa, quindi oramai incolmabile, tra chi è parte di quei ceti più o meno felicemente globalizzati, per i quali la mobilità è una opportunità e non una dannazione, e chi, invece, non può godere in alcun modo di questa prospettiva, semmai vivendola come il racconto della propria irrilevanza. Di questo ci parla l’Europa sociale. Lo fa il più delle volte con il linguaggio aggressivo dell’esclusione. Non basta, tuttavia, stigmatizzarlo. Poiché se c’è il rischio che la democrazia si trasformi, nella diffusa crisi della rappresentanza che stiamo vivendo, in una sorta di disordinata oclocrazia, sul versante delle classi dirigenti la demagogia è non di meno una tentazione sempre più diffusa. Due facce della stessa medaglia, quella della finzione. Quando il racconto di un futuro a venire si rivela nella sua essenza di fiaba vuota, che tradisce le sue stesse premesse di fondo per negare infine la realizzazione di qualsiasi residua promessa, allora i varchi per il declino sono aperti. Le collettività misurano quasi epidermicamente, ossia sulla propria pelle, il senso dell’inganno. Si tratta di una questione di ordine esistenziale. È come se chi sente l’acqua salire verso la gola, annaspando furiosamente, tentasse di trovare un qualche appiglio al quale ancorarsi pur di non sprofondare e affogare. Inutile contestargli la scompostezza dei gesti, senza guardare perché si comporta in tale modo. Inutile richiamarlo ad un senso dell’ordine razionale quando l’esperienza che realizza della sua quotidianità è quella della frantumazione di quell’ordine. Fare politica nel nome della coesione sociale implica il volere guardare in faccia lo sgradevole stato delle cose, non il rifugiarsi in qualche ulteriore considerazione auto-consolatoria. Magari ripetendosi, come un mantra, che gli elettori inglesi “hanno sbagliato”, senza però offrire delle concrete alternative alla ripetizione di quell’errore. Oppure rifugiandosi in letture univoche, come quella di un divario generazionale nel voto che spiegherebbe tutto: i giovani sono “aperti” al futuro; i meno giovani, invece, perlopiù “chiusi in sé”. Questo genere di affermazioni, ancorché singolarmente fondate, se non sono però riportate all’interno di un quadro di riferimento che identifichi soprattutto le radici del malessere, insieme alle risposte plausibili perché realmente praticabili, rischiano di fungere da funzionale controcanto alle facili e univoche attribuzioni di colpa che i gruppi, i movimenti, i partiti ‘populisti’ operano nello scenario politico continentale. Inorridire per il dire (e l’agire) di questi ultimi senza una strategia alternativa è il peggior modo per affrontare l’agenda dei problemi. Il divorzio tra il potere reale e la rappresentanza politica, laddove i rapporti di forza giocano sempre più spesso a sfavore della seconda, ridotta ad essere l’arena della crescente impotenza e il teatro della irrilevanza dei più, ha come contropartita l’affondamento del processo di integrazione europea. Nell’illusoria convinzione, per certuni, che nell’età della globalizzazione avanzata ci si possa salvare chiudendosi dentro un fortino assediato. Non si combatte questo miraggio, tuttavia, con le prediche e i paternalismi. Lo spettro del declino permanente è oramai divenuto l’ombra di una società che non riesce più a pensarsi al di fuori di uno stato di perenne emergenza. Con un’avvertenza che non dovrebbe sfuggire ai più, ossia che quando una maggioranza si trova in difficoltà le prime a rischiare, pagando ingiusto pegno, sono quasi sempre le minoranze.
Claudio Vercelli
(3 luglio 2016)