Periscopio – Elie Wiesel
È davvero difficile parlare di Elie Wiesel, nel momento in cui ci ha lasciato, senza cadere in quella retorica a lui tanto aliena, o nell’illusione di riuscire a sintetizzare con delle parole il senso di una lezione il cui nucleo essenziale è proprio quello dell’incapacità della parola di rendere testimonianza. “Vi abbiamo raccontato parte del nostro passato – ha scritto – non per farvelo conoscere, ma perché possiate sapere che non lo conoscerete mai”. Eppure, della parola Wiesel è stato maestro, lasciandoci delle pagine di altissimo lirismo, di ineguagliabile forza espressiva, che avrebbero potuto benissimo guadagnargli, accanto all’onore del Nobel per la Pace, quello del Nobel per la Letteratura. Ma tutte queste pagine non costituiscono un racconto di qualcosa di conosciuto, e che sia possibile raccontare, interpretare, ma piuttosto la dolorosa interrogazione intorno a un mistero insondabile, come un grido muto in un’immensa caverna oscura, che non restituisce alcuna eco, nella quale ogni parola è destinata a perdersi nel nulla.
Ma questa impossibilità di rappresentazione, questo “esilio della parola” (secondo l’espressione di André Neher) si è trasformato, in Wiesel, nel suo contrario, in dovere di testimonianza, in bisogno assoluto di quella parola negata, umiliata, impossibile. E così, dalla tremenda Notte, ci è giunta la sua voce. La quale risuonerà per sempre, dovunque ci sia una coscienza umana, come un imperativo categorico a ricordare, per sempre, fino alla fine dei secoli, ciò che non può essere raccontato ma non può essere neanche dimenticato. La testimonianza di Wiesel, ora che di lui rimane solo la parola scritta, resta come una fiaccola da trasmettere alle generazioni future, come pegno di sopravvivenza, nonostante tutto, di un’umana coscienza. Se un giorno dovesse spegnarsi, è la coscienza dell’uomo che si sarà spenta per sempre, e non è poi tanto improbabile che ciò possa accadere.
Credo che l’eterna oscillazione dell’identità ebraica tra particolarismo e universalismo trovi nell’esempio di Wiesel una soluzione semplicemente perfetta. Mai, in lui, l’appartenenza al popolo ebraico ha significato un benché minimo affievolimento del senso di appartenenza alla più ampia famiglia umana, e nessuno come lui si è battuto a difesa dei diritti di tutti gli uomini, contro qualsiasi forma di violenza, di sopruso e sopraffazione, dovunque sulla Terra. Ma mai questa compassione universale ha comportato un benché minimo appannamento della sua ebraicità, del doloroso privilegio di essere parte di quel popolo “eletto” e “maledetto”. Diversamente da un altro grande testimone, Primo Levi, il quale dichiarò che la sua identità ebraica gli sarebbe stata rivelata soprattutto da Auschwitz (in quanto, prima di questo evento, si sarebbe sentito ebreo, “da una stima vaga, al venti per cento”), per Wiesel, cresciuto in una famiglia di grande zelo religioso, l’identità ebraica è stata sempre qualcosa di completamente pervasivo e naturale, ed egli avrebbe trovato senza senso ogni alternativa tra fedeltà al popolo mosaico o alla specie umana.
La nostra immensa gratitudine per il poeta-testimone è anche accentuata dal fatto che, diversamente da tanti altri cantori della Shoah, dopo la guerra, non ha mai perso la bussola del bene e del male, non ha mai fatto confusione tra vittime e aggressori, e, pur nella compassione per tutte le vittime innocenti, ha sempre distinto con nettezza tra le responsabilità di chi è costretto a uccidere per difendersi e chi invece uccide per uccidere, scegliendo le vittime sacrificali in ragione della loro identità e della loro religione, spesso in perfetta continuità di spirito con quegli aguzzini che gli avevano impresso sull’avambraccio il numero A-7713. La profonda e costante solidarietà verso Israele non fu certo mai per lui – e come avrebbe potuto essere? – una scelta “corporativa”, ma il semplice frutto di una logica e ineluttabile valutazione morale. Dello ebraico gli fu offerta, di recente, com’è noto, la carica di Presidente, pur non avendoci mai vissuto, e non essendone neanche cittadino. Wiesel rifiutò (così come aveva rifiutato, al momento dell’indipendenza del Paese, un altro grande, Albert Einstein), ma il suo contributo alla difesa e alla forza di Israele resta comunque incommensurabile, pari al suo contributo alla coscienza di tutta l’umanità. E, anche in questo caso, non c’è, tra le due cose, la minima contraddizione.
Ancora una nota al margine. Nel salutare la nuova Presidente dell’UCEI, Noemi Di Segni, non posso fare a meno di rivolgere un saluto grato e affettuoso, per tutto quello che ha fatto, al Presidente uscente, Renzo Gattegna, di cui mi onoro di essere, da lungo tempo, amico. Una voce di grande autorevolezza e di raro equilibrio, di cui l’Italia avrà ancora, a lungo, molto bisogno.
Francesco Lucrezi, storico
(6 luglio 2016)