Notizie radiofoniche
Decisamente, un inizio di settimana cipiglioso. Come può essere altrimenti, mi chiedo. C’è chi non sopporta lo stridio del gesso sulla lavagna, chi il suono della forchetta tra i denti. A me, sarà anche a causa della pancia grossa o dei turbinati nel naso (delle specie di adenoidi che impediscono un’adeguata respirazione, e non è piacevole), provoca un certo affanno sentire l’uso improprio delle parole – per quanto anche “Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi” e i non cultori dell’ermetismo ricercato e prezioso che Montale guardava con un certo distacco. Una specie di reazione allergica, mettiamola così. Intanto, leggo su un volantino di una lodevole iniziativa benefica per le “donne oncologiche” e sobbalzo (il naso si chiude all’istante). Da quando subire una malattia si trasforma in un’essenza? A corrucciare troppo la fronte mi vengono le rughe, ma non riesco a farne a meno.
Poi, tocca non vedere il Palio, che è vero è irrinunciabile solo per i senesi certificati ed io di certo non lo sono e, anzi, ho tradito l’adottiva terra andandomene, ed è altrettanto vero che la contrada prediletta non corre e che a ben vedere trattasi pur sempre di avodà zarà, ma via, non dico tutto il corteo storico, almeno un’occhiatina alla carriera (la corsa, come la chiamerebbero i profani ignoranti)… E invece niente, è sabato pomeriggio.
Tocca anche guardare solo un pezzo di partita dell’Italia, e anche qui con tutti i distinguo del caso, ma contro la Germania, suvvia! Ad una mia amica è andata anche peggio, mi consolo: il suo bambino settenne, cresciuto a pane e correttezza politica, ha dato del “testa di c@” a un giocatore spagnolo, provocando una mezza sincope alla genitrice sempre attenta al politicamente corretto, ed ora il ragazzino fa anche peggio perché tifa per i teutonici e giganteschi avversari. De gustibus….provo a consolarla, e poi da quelle parti avevano un debole per l’eugenetica e tale ragione sono grandi e grossi, e forse aitanti agli occhi di un bambino. E comunque, se il bimbo solo due anni fa tifava il “Costa Rita” e diceva che i giocatori avevano tirato in porta e “fatto golf”, forse la sua innocenza è recuperabile con qualche intensa terapia specifica. Arrivare ai rigori poi, ed in questo modo, potrebbe accelerare la rottura delle acque o no, mi interrogo intanto, contrariata. Taciamo sulla conclusione della partita.
Ma il peggio deve ancora venire, quando assai assonnata eppur vigile apprendo, ascoltando le notizie radiofoniche, della morte di Elie Wiesel z.l. accadimento già di per sé triste, ma c’era bisogno di definire Wiesel come proveniente da una “famiglia ultra ortodossa”? Il vocabolo rischia di provocarmi una reazione allergica, e mi sento un po’ alter ego del protagonista del caustico e paradossale film di Alberto Caviglia Pecore in erba il quale, viceversa, da verace antisemita si sentiva male a certe manifestazioni filo semite o anche solo a sentire la melodia di Hava nagila.
Ma questo motzei Shabbat c’era poco da rallegrarsi, ho pensato. Il giornalista (temo lo sia) non solo ha perseverato nel parlare di “Olocausto”, ma sopratutto ha fornito un pessimo servizio con il tracciare un profilo dello scrittore, sopravvissuto adolescente alla Shoah e premio Nobel per la pace, nonché instancabile lottatore contro il proteiforme antisemitismo contemporaneo, in cui Wiesel veniva ricordato per essere stato contestato dai negazionisti. Ecco, con le molteplici, bellissime cose per cui Wiesel poteva essere menzionato, dall’incessante dialogo con Kadosh BaruchHu ai suoi poetici midrashim, accostarlo neppure tanto indirettamente alla propaganda negazionista per spendere un minuto buono a parlare di questo movimento pseudoscientifico (anche se in questo caso la definizione adoperata dal mio piccolo amico settenne per il calciatore spagnolo forse sarebbe più calzante) mi è sembrata una disonesta, e neppure tanto mascherata, forma di propaganda. Ma di sicuro di parte lo sono anche io, perniciosamente contraria ai tanti e temo sempre più numerosi paladini impegnati nella lotta alla “antisemifobia”, malattia di cui sarebbero affetti, direbbe Caviglia, gli ebrei ed i terribili loro amici filosemiti.
Allora Elie Wiesel preferisco pensarlo così, in attesa della sua rinascita, come fiduciosamente mi ricorda un altro bambino che conosco, con l’arrivo di Moshiach: polemico e critico, ma a suo modo sempre vicino all’Altissimo, un ragazzino che vedendo il padre torturato in lager si chiede “Ma perché, ma perché benedirLo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte? […] Oggi non imploravo più. Non ero capace di gemere. Mi sentivo, al contrario, molto forte. Ero io l’accusatore, e l’accusato, Dio” (La notte, Giuntina). Ma quel ragazzo, e poi uomo, allo stesso tempo con D-o non poteva fare a meno di parlare e di restare in contatto attraverso la memoria e l’identità ebraica, al pari di quel giovane hassid il quale, nel suo racconto Contro la malinconia. Celebrazione hassidica II (Spirali) chiede al rebbe come alleviare la sua tristezza per la bestialità degli esseri umani e le pene del mondo, e si sente rispondere che “La Torah è l’unico rimedio; lo è sempre stato. Contiene tutte le risposte. Anzi è la risposta. L’hai forse dimenticato?”.
Sara Valentina Di Palma