“Raccontiamoci, a testa alta”

gadi luzzatto voghera albertini C’è un firmamento di stemmi che accoglie a Padova il visitatore nel cortile storico di Palazzo del Bo, il cuore di una delle più antiche università del mondo. Sono migliaia e costellano le pareti, le volte dei porticati, le grandi scale. “Questa è Padova, un cuore della cultura europea e soprattutto la prima università ad aprire coraggiosamente le porte agli ebrei. E questi sono gli stemmi, i simboli di migliaia di studenti che hanno contribuito a scrivere pagine leggendarie di storia della cultura e della ricerca”. Gadi Luzzatto Voghera racconta il clima di una città che è ormai la sua, anche se le origini richiamano a Venezia e a Trieste e prepara intanto la sua valigia metaforica per Milano.

gadi luzzatto voghera albertini C’è un firmamento di stemmi che accoglie a Padova il visitatore nel cortile storico di Palazzo del Bo, il cuore di una delle più antiche università del mondo. Sono migliaia e costellano le pareti, le volte dei porticati, le grandi scale. “Questa è Padova, un cuore della cultura europea e soprattutto la prima università ad aprire coraggiosamente le porte agli ebrei. E questi sono gli stemmi, i simboli di migliaia di studenti che hanno contribuito a scrivere pagine leggendarie di storia della cultura e della ricerca”. Gadi Luzzatto Voghera racconta il clima di una città che è ormai la sua, anche se le origini richiamano a Venezia e a Trieste e prepara intanto la sua valigia metaforica per Milano. Sarà lui il nuovo direttore della fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec), succedendo allo storico Michele Sarfatti. E l’impegno, se non imporrà l’abbandono della città veneta tanto amata, richiederà quantomeno lunghi periodi d’assenza da casa. “La mia famiglia nelle generazioni si è tante volte ritrovata a Padova”, commenta.

Un riferimento all’opera del rav Shmuel David Luzzatto, il grande Shadal?

Non solo, anche a tanti altri, a tante vicende, a tante generazioni che nei secoli hanno fatto la Padova ebraica. Storie che dal 1400 sono passate attraverso la gloriosa Yeshiva, poi mutatasi nel polo di formazione rabbinica voluto da Vienna. Ma anche nella crescita di un’università prestigiosa, dove gli ebrei, con alterne vicende, sono stati accolti e hanno potuto dimostrare il proprio valore.

Luce e prestigio offuscati dagli anni bui…

Quando con il tradimento delle leggi razziste e persecutorie del 1938 gli ebrei furono cacciati dalle università italiane, fu forse proprio questo ateneo a pagare uno dei prezzi più alti, vedendo allontanarsi docenti e studiosi di altissimo valore. Gli ebrei di Padova hanno a lungo incarnato la vocazione dell’ebraismo italiano di offrire al mondo rabbini, giuristi, medici di valore.

Un passato ormai lontano…

È un passato che non dobbiamo dimenticare, per rendere omaggio e per rendere giustizia a chi ci ha preceduto. Ma anche per non perdere gli strumenti che ci consentono di interpretare e di lavorare correttamente sul presente e di combattere per il futuro.

La tradizione di studi umanistici, economici e scientifici a Padova prosegue oggi anche al di là dell’ateneo con l’impegno nella sede italiana della Boston University, con la Biblioteca e archivio Renato Maestro della Comunità ebraica di Venezia, con il nuovo museo e laboratorio di conoscenza storica che la Comunità ebraica di Padova ha recentemente aperto accanto alle gloriose sinagoghe della città.

Sì, purtroppo saranno alcuni degli impegni da cui dovrò almeno in parte distaccarmi. Il Cdec a Milano ha bisogno di un direttore molto presente.

Di nuovo un impegno sul fronte della storia. E un laboratorio per comprendere le vicende degli ebrei italiani. Ma come può essere interpretata oggi, agli occhi dello storico, la presenza ebraica in Italia?

L’Italia è stato nei millenni un territorio difficile per la presenza ebraica. Ma contemporaneamente, o forse proprio per questo, un’area dove ha preso vita una presenza ebraica estremamente radicata, stimolante e originale. È un modello su cui si è detto e scritto molto, ma che in realtà è ancora molto da studiare e da capire.

Perché?

La specificità storico-sociologica non dipende solo dai fattori economici. La preponderante presenza culturale della Chiesa ha condizionato enormemente le vicende della realtà ebraica italiana, e continua a pesare ancora oggi anche se l’egemonia cattolica si è fatta apparentemente più labile e difficile da percepire nitidamente. Si è trattato di un fattore che ha imposto comunità di piccoli numeri, forti nel difendere le loro peculiarità identitarie, ma anche ben capaci di gestire i processi e i rapporti di integrazione.

La realtà ebraica nell’Italia di oggi deve essere interpretata come il risultato di una storia tanto lunga?

Certo da un lato questo è inevitabile e noi siamo gli eredi di questa lunga storia. Ma decenni di processi migratori, la presenza di realtà nuove, marcate anche dalla caratterizzazione della provenienza e della cultura etnica o dall’orientamento ideologico, dall’arrivo degli ebrei di Libia all’inserimento di gruppi di Lubavitch, fa sì che ci troviamo in una realtà molto modificata e ancora più complessa e a comunità che oggi contengono al proprio interno l’impronta multietnica.

Sono queste le evoluzioni con cui dobbiamo fare i conti?

No, ci sono altri fattori che hanno profondamente modificato la presenza degli ebrei in Italia. A cominciare dalle aspettative che la società civile esprime nei confronti degli ebrei. Ci si chiede di raccontarci, di spiegarci. E sono dinamiche potenzialmente positive, anche sotto il profilo identitario.

Un esempio?

Il grande polo culturale del museo dell’ebraismo italiano che sta nascendo a Ferrara.

Che ruolo hanno in questa mutazione le istituzioni ebraiche?

L’Unione delle Comunità ebraiche ha come sua missione istituzionale l’esigenza di gestire la relazione con la società. È un compito difficile, anche perché gli ebrei italiani su questo fronte hanno accumulato un grande ritardo. Ma la dinamica della crescita delle aspettative culturali, la crisi economica, la necessità di reperire risorse, il meccanismo dell’Otto per mille non consentono più di condurre la vita della piccola parrocchia di una volta. E sviluppare la capacità di trovare risorse affermando quanto è vero, ossia che la realtà ebraica è patrimonio irrinunciabile della società italiana, è fondamentale.

Ma il dialogo con la società non accentua il rischio dell’assimilazione?

Direi al contrario che quando siamo stimolati a spiegare noi stessi siamo anche portati a interrogarci su chi siamo, a definire meglio la nostra identità e quindi a riscoprirla. E difatti il legame con la tradizione ebraica, con lo studio, la Casherut, la consapevolezza delle regole dell’Halakhah, si sono fatti notevoli passi in avanti.

Un successo, un progresso sul fronte interno e su quello esterno?

No, non sempre. Il confronto con la società è una grande opportunità, ma per ora possiamo misurare anche le tante occasioni perse. C’è uno scatto mancato. Non siamo ancora riusciti a far comprendere come la presenza ebraica sia una componente perfettamente legittima e connaturata dell’identità italiana, una identità che noi stessi abbiamo contribuito a costruire.

Che cosa potremmo fare?

Pensiamo soltanto che la lingua ebraica è confinata dall’accademia italiana nel novero delle lingue orientali. Ciò che risponde solo a una parte della realtà, e non rende giustizia all’immensa produzione culturale in lingua ebraica nata proprio qui in Italia. Comunicare questo stato di fatto è una nostra responsabilità.

Una sfida che il Cdec di domani potrà raccogliere?

Tengo molto a ricordare che il Cdec, che oggi è il più importante centro di studi ebraici in Italia, è nato da uno slancio dei movimenti giovanili. Proprio su quello slancio un direttore di valore come Michele Sarfatti ha già compiuto con il suo staff un lavoro egregio. Esiste un percorso già segnato per coordinare e mettere in rete il patrimonio di conoscenze e testimonianze di tutte le comunità, essere lo snodo, il punto di mediazione degli archivi. Essere un punto vivo della cultura italiana e non solo un deposito di Memoria.

Con quali strumenti è necessario combattere questa battaglia e condurre questo lavoro?

Con l’impegno. E con la capacità di comunicare. L’impegno sull’informazione, di cui questo giornale è testimonianza, ci fa capire che se vogliamo essere davvero percepiti dobbiamo continuare a comunicare. Non è, questa, una funzione accessoria, ma un impegno necessario da cui può dipendere il futuro degli ebrei in Italia.

Guido Vitale, Pagine Ebraiche, luglio 2016

(Ritratto di Giorgio Albertini)

(10 luglio 2016)