Chi è l’assassino, chi la vittima

Valerio-Fiandra 2“È finita. Giustizia è fatta”. Un sordo colpo echeggia all’ultima frase de La ragazza tatuata di Joyce Carol Oates (2012, Mondadori,traduzione Francesca Maioli), come un sipario che crolla ma non si chiude sulla storia dello scrittore Joshua Siegl, celebre per un romanzo che ha dato voce alle voci di chi non è sopravvissuto, non sa convivere con il successo e il ruolo cui quell’opera giovanile lo ha consegnato. Quando non sopporta più la solitudine, decide di assumere un assistente che lo aiuti a mettere ordine fra le migliaia di appunti e lettere che accumula: sarà l’estranea Alma – ma si chiama davvero così? – a trasformare la sua vita, a fargli ammettere le sue responsabilità, a fargli cambiare prospettiva. Sarà la sua famiglia a ostacolare, a impedire, a uccidere.
È una tragedia americana il libro della Oates dove – per una volta – l’irrapresentabilità della Shoah è scenario, non focus; è sfondo, non oggetto, ed è per questa ragione che funziona, insinuandosi a un livello più profondo – e più utile – dell’orrore o del lutto. Alludere è meglio che descrivere.
La prosa ordinata e insieme divagante ne è testimonianza, a riaffermare che non c’è Contenuto se non nella sua adeguata Forma. Così va che la quarta di copertina e le recensioni hanno insieme torto e ragione: non è l’antisemitismo il fulcro, eppure lo è come rare volte è stato.
La Oates usa spesso mostrarci come si comportano quando credono di non venir visti i personaggi del suo dramma: sono momenti di rivelazione delle loro più profonde e realistiche intenzioni e afflizioni, e se ci sono così familiari non è solo perché forse abbiamo visto chi davvero sono, ma perché ciascuno di noi, che non sa chi davvero è, sa per certo che non è chi mostra di essere. Lo Scrittore – quello che merita questo appellativo la cui genericità non sa più distinguere fra scribacchini e artisti – vede non visto: i suoi occhi sono nelle parole che scrive.
In un equilibrio fra realismo e simbolismo una cui traccia evidente sono i tatuaggi che Alma ha sul corpo e il viso – e i prigionieri dei lager nazisti ‘solo’ sul braccio -, questo romanzo del pregiudizio rovesciato condanna il genere umano, assolve gli individui e ci inchioda tutti.
È straordinaria la capacità della Oates nell’usare di ogni personaggio i gesti, gli abiti, i toni e le parole per comporre un testo dove, alla fine, tutto si tiene ed è metafora senza volerlo essere; forse lo è proprio perché non vuole. Alla fine la domanda è se la storia ‘minore’ di Alma e Joshua è davvero meno importante della Storia, o è piuttosto quest’ultima che non solo non è davvero raccontabile, ma cui addirittura manca anche il poco senso che, in quelle private, c’è ed è raccontabile.
Anche nelle più ostiche e improbabili, violente e segrete vicende umane – infatti – un rovesciamento è possibile, un cambio di punto di vista è sufficiente per allentare, e forse smontare un pregiudizio. E non importa se il tentativo fallisce.
Ma se il pregiudizio è stato il brodo di cultura dell’antisemitismo, che ha trovato nella Soluzione Finale il suo maggiore ma non ultimo esempio, cosa dovremmo dunque comprendere – e solo dopo aver compreso, agire – se non le ragioni dei pregiudizi che stanno strangolando l’umanità? Senza rivelarvi il finale del libro, vi invito però a fare attenzione a chi è l’assassino e chi la vittima, e a farvi le domande che una volta per tutte e per tutti si è posto Hillel il Vecchio. Anche la seconda, quella che di solito viene dimenticata…

Valerio Fiandra

(14 luglio 2016)