Arrigo Levi: “L’Italia del coraggio
guarda oggi al Quirinale”
Scatta un saluto, ma sfugge un sorriso. I corazzieri che li attendono al termine della salita al Colle vorrebbero essere formali, ma senza rinunciare al loro contegno traspare un impercettibile gesto d’affetto. L’autunno consuma le sue ultime giornate fra scrosci cupi e improvvise, brillanti schiarite. Roma attende inquieta l’inverno politico più incerto. Una nuova volta gli interrogativi della politica e dell’economia portano molti sguardi a convergere sul Quirinale. Le prime pagine dei giornali, quando riescono a distogliersi da veleni, piazzate e vallette, raccontano di un’Italia che attende le sue risposte dalla Presidenza della Repubblica. Le stime della popolarità di cui gode il Quirinale, tradizionalmente sempre molto alte, sono in costante ascesa, ormai alle stelle. Sono dati che sfatano il luogo comune dello scetticismo anarchico e atavico appiccicato al popolo italiano. La gente è stufa di parole vacue e maldicenze. Ha voglia di credere in qualcosa di serio, cerca fatti e valori cui ancorare le proprie speranze. Il grande corpo del Quirinale che si estende dopo la facciata ufficiale non corrisponde all’immagine serena che si proietta sulla piazza con la fontana dei Dioscuri. Dietro le quinte molto lavoro e molte tensioni attraversano gli uffici. Arrigo Levi, stratega della Comunicazione di Carlo Azeglio Ciampi prima e di Giorgio Napolitano oggi, varca la soglia assieme al presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna. Poche parole fra amici fanno da preludio a un momento molto atteso per tutti gli ebrei italiani. Napolitano ha accettato l’invito a partecipare al Congresso Ucei di dicembre. Per la prima volta un presidente della Repubblica sarà presente, a 150 anni dall’Unità d’Italia cui gli ebrei italiani diedero un contributo appassionato e incancellabile, alla massima assise della più antica minoranza della Diaspora. Quando il 6 dicembre si apriranno le porte della sala dove ad attenderlo troverà raccolti i delegati della minoranza ebraica in Italia, il Presidente non sarà accompagnato solo da un grande giornalista, ma anche da un uomo che torna a immergersi in tanti affetti e amicizie. Proprio sulla straordinaria vicenda degli ebrei italiani e sulla loro vocazione ad attraversare nella loro specificità da protagonisti le vicende del nostro paese, a questi 150 anni d’Italia sarà dedicato l’intervento della storica Anna Foa. E se al Congresso si parlerà della riforma dello Statuto dell’ebraismo italiano, di progetti, di decentramento, di capacità di raccogliere le risorse per garantire un futuro a un ebraismo piccolo nei numeri ma prezioso e complesso nei valori testimoniati in due millenni di storia; la presenza del Quirinale segnerà una parentesi di alto significato istituzionale.
Gran signore del giornalismo, a lungo Consigliere e ora Consulente personale del Presidente della Repubblica, uomo di fiducia dei massimi vertici dello stato, nel suo studio al Quirinale Arrigo Levi sembra incarnare tutto il destino della minoranza ebraica in Italia. Dalla piccola, gloriosa Comunità di Modena al mondo, dai primi passi nel mondo dei giornali al ruolo di direttore prestigioso e di interlocutore diretto dei grandi della terra, dall’esilio determinato dal fascismo e dalle leggi razziste all’autorevolezza di un consigliere ascoltato sul Colle per due settennati.
Sorride e sulla scrivania tutto soddisfatto dispiega un bigliettino. “Ottomilacinquecentottanta”, sillaba soddisfatto, leggendo il numero che porta segnato.
Cabala? Messaggi cifrati?
Se si tratta di un’intervista con il giornale dell’ebraismo italiano, ho pensato di documentarmi.
E questo numero, cosa significa?
È il numero dei Levi che si contano nelle Scritture. Sono andato a verificare, volevo sapere da quanti e da quali discendo.
Il Libro è un punto di riferimento anche nel tuo lavoro? Quando si è fatta strada questa consapevolezza?
Era il 1942. Eravamo esuli in Argentina. Mio padre aveva una Bibbia con sé. È stato un incontro all’inizio quasi casuale, non sapevo nemmeno cosa stessi cercando. Poi l’ho preso in mano e l’ho letto d’un fiato. Allora tutto è cambiato. La mia tesi di laurea sarebbe stata dedicata alle radici dell’Umanesimo nella Bibbia. È stata un’esperienza molto importante.
Prima di risalire all’origine di tutte le cose, partiamo dai giorni nostri e dalla vita quotidiana. La crisi delle istituzioni non ha eroso l’immagine del Quirinale…
Così dicono i dati più aggiornati. La Presidenza della Repubblica è in testa alla classifica delle realtà in cui gli italiani ripongono la loro fiducia. Sono indici molto alti, superiori anche a quelli della Chiesa.
Qualche numero?
Quirinale sempre sopra l’80 per cento della fiducia. Secondo alcune ricerche addirittura all’86. Berlusconi e Vendola secondo gli ultimi dati stanno al 39. Bersani al 37.
Perché?
Esiste una domanda latente. Esiste un’Italia pacata, civile, che crede nelle Istituzioni, che continua a nutrire fiducia nel futuro. Questa Italia guarda al Quirinale.
Dalla trincea dei grandi giornali e delle televisioni al Colle. Come è avvenuto questo passaggio?
Avevo conosciuto Ciampi nel 1970 ed ero diventato suo amico molti anni prima, durante un lungo reportage fra i grandi dell’economia di tutto il mondo che finì in un libro, il mio Viaggio fra gli economisti compiuto con Alberto Ronchey. Un anno di lavoro, difficile e appassionante, la mia inchiesta più lunga. Era nato un rapporto di stima e di amicizia. Fu così che mi chiamò al Quirinale al momento della sua elezione. Quando arrivò Napolitano, di cui pure ero già amico, ho avuto modo di restare.
Niente di tanto speciale, forse, starsene qui dopo aver girato tutto il mondo.
Al contrario, per me è un’esperienza straordinaria. Ho imparato a conoscere l’Italia e ad amarla come mai prima ero riuscito a fare.
Come?
All’inizio della presidenza di Carlo Azeglio Ciampi abbiamo intrapreso assieme un viaggio affascinante: vistare assieme tutte le provincie italiane per due volte ciascuna. Centoquattro missioni al suo fianco per cercare di capire l’Italia di oggi. Lui incontrava la gente, io prendevo appunti. A volte penso di essere l’ultimo giornalista a prendere appunti sul quadernetto.
E come trovi l’Italia di oggi?
L’Italia vera è molto meglio di quanto non appaia e di come non la raccontino i giornali. Il paese reale è meno litigioso del suo mondo politico. Lavora tanto da costituire la seconda realtà industriale d’Europa. Esprime vitalità in campo economico e nel suo modo di affrontare le crisi. E se l’economia sommersa rappresenta una percentuale impressionante, attorno al 20 per cento del prodotto nazionale, se si fa meno ricerca organizzata, ci sono pure importanti fattori di compensazione che consentono un recupero.
Come erano organizzati questi viaggi nell’Italia profonda?
Abbiamo cercato di parlare con la gente e con i loro rappresentati. Con i sindaci, con i presidenti di Regioni e Province, con i prefetti, con i vescovi. Ho conosciuto professionalità eccezionali. Mi sono chiesto molte volte se valessero più i prefetti e i vescovi. E non ho mai smesso di stupirmi del patrimonio di diversità imprenditoriale e spirituale si possa incontrare in questo paese. Anche fra i vescovi. La mia esperienza di giornalista della vecchia guardia mi ha forse aiutato a trovare le domande giuste, ad ascoltare risposte tanto diverse.
Il tuo è l’itinerario straordinario di un ebreo italiano, o solo di un grande giornalista ebreo per caso?
Anche io ho goduto indirettamente del beneficio della grande spinta propulsiva della fine dei ghetti. I nostri antenati si erano giovati di quella grande carica che fu la caduta delle barriere, della voglia di dimostrare di essere bravi come gli altri, e anche di più. Della spinta propulsiva di potersi impegnare nella società civile. Gli ebrei italiani hanno dato molto a questo paese, e per molto tempo hanno vissuto in un ambiente aperto e tollerante. Gli anni bui delle persecuzioni e per la mia famiglia dell’esilio si sono poi risolti con una rinascita dell’orgoglio identitario.
Nella tua autobiografia Un paese non basta ti descrivi come un cittadino del mondo, ma definisci contemporaneamente le tue radici come “ebraiche, italiane e modenesi”.
Parlo del calore dei sentimenti e di una certa inconsueta vigoria delle passioni umane, non disgiunta da doti di tolleranza. Una grande pacata accettazione del dolore, che è fonte non di rassegnazione, ma di tenace coraggio. E una comune bontà degli animi di fronte ai perseguitati, ai fuggiaschi. In queste virtù salde, i miei antenati, formatisi sullo studio della Torah, si riconoscevano facilmente e fu facile sentirsi insieme ebrei, italiani e forse soprattutto modenesi come tutti gli altri.
Quando il leader libico Gheddafi chiese senza ottenerlo all’editore della Stampa il tuo licenziamento attaccandoti per la tua identità ebraica e per aver combattuto assieme a molti giovani italiani per l’indipendenza di Israele, eri il direttore di uno dei grandi e prestigiosi giornali italiani. Vieni da un mondo di quotidiani autorevoli. Riesci a ancora a riconoscerti nella mutazione delle grandi testate italiane?
Certo, forse se dipendesse da me non farei i giornali come li trovo oggi in edicola. Non sarei capace di cucinare otto pagine di scandali. Cercherei un’Italia che credo più vera e che è diffusa sul territorio, non si trova a Roma. Ma resto ottimista, e non posso sopportare il piglio nostalgico. Ma devo anche ammettere che un grande giornale ha dietro un grande editore. Ho avuto la fortuna di avere per editore un imprenditore che amava avere giornali autorevoli. Da Torino si veniva a Roma solo una volta l’anno e si evitava di intrattenere rapporti con la buona società cittadina. Gianni Agnelli non mi ha mai chiesto di leggere un articolo prima della pubblicazione. Quando ci si incontrava si parlava di tutto, ma non del giornale. C’era intesa, fiducia e rispetto reciproco. Non serviva altro. Ed è tutto quello che come giornalisti possiamo desiderare.
Guido Vitale
Dalle persecuzioni al timone dei grandi giornali
Appartenente a una famiglia ebraica modenese (il padre Enzo era un noto avvocato, la madre Ida Donati discendeva da Donato Donati, mercante arrivato a Modena nel 1600 da Finale Emilia che aveva introdotto il frumento saraceno nel Ducato Estense), nel 1942, all’età di sedici anni, Arrigo Levi si è trasferito con i familiari in Argentina, per sfuggire alle persecuzioni fasciste. A Buenos Aires ha iniziato gli studi universitari e nel 1943 ha cominciato la carriera giornalistica, come collaboratore di Italia libera. Dopo la guerra è tornato a Modena, ha completato i suoi studi e ha continuato la carriera giornalistica a “Unità Democratica” diretto da Guglielmo Zucconi. Si è poi trasferito a Londra, dove ha lavorato a “Radio Londra” della BBC. Successivamente è stato corrispondente del quotidiano torinese Gazzetta del Popolo. Dal 1953 al 1959, ha scritto da Roma per il quotidiano milanese del pomeriggio Corriere di informazione. Nel 1960 si è trasferito a Mosca. Qui, fino al 1962, è stato corrispondente del Corriere della sera e poi, fino al 1966, per Il Giorno. Nel 1966 è passato alla Rai, dove ha condotto il telegiornale fino al 1968. È tornato alla carta stampata nel 1969, come inviato del quotidiano torinese La Stampa, incarico che ha ricoperto fino al 1973, quando è diventato direttore dello stesso giornale. È rimasto a Torino fino al 1978. Dal 1979 al 1983 ha collaborato con il Times, curando la rubrica di problemi internazionali. Nel 1988 è diventato capo editorialista del Corriere della sera e dal 1998 è stato Consigliere per le relazioni esterne del Quirinale, prima con Carlo Azeglio Ciampi e poi con Giorgio Napolitano.
Le mie radici ebraiche, italiane e modenesi
“L’Italia rinasceva, la vita tornava, mio padre aveva votato il 2 giugno del 1946 contro il re che aveva consentito la distruzione della democrazia”. Il rientro in Italia dopo l’esilio e i primi anni della Repubblica costituirono per il giovane Arrigo Levi una stagione decisiva. Nel 1948 viene il momento di partire per difendere l’Indipendenza dell’appena proclamato stato di Israele. Il rientro a casa avverrà solo al termine del conflitto. “Eravamo in 120 ragazzi. Non tutti sionisti. Quello che ci interessava era difendere il diritto di Israele a esistere. Nel nome di un umanesimo che ci accomunava. Nel nome del diritto di 600 mila rifugiati, molti scampati alla Shoah di vivere in pace”. La scelta di combattere segna una stagione intensa, drammatica, ma non l’intera esistenza. “La scelta tra vite diverse – prosegue Levi – fra un destino israeliano e un destino italiano ed europeo, fu per me serena anche se non semplice, oggetto di lunghe riflessioni nell’anno trascorso nell’esercito israeliano e anche dopo il ritorno in Italia. Non ho alcuna obiezione al diritto degli israeliani di definirsi ‘ebrei totali’ a fronte degli ‘ebrei parziali’ che continuano ad abitare ‘all’estero’, nel mondo. Ma penso che ci siano in verità tanti tipi di ebrei quanti sono gli ebrei e che siano comunque sicuramente ebrei tutti coloro e loro soltanto che si autodefiniscono tali; perché chi si dichiarasse ebreo senza esserlo – diciamo noi in base a una lunga esperienza di vita e di storia – sarebbe sicuramente fuori di senno. Mi sento, piuttosto, un ebreo cosmopolita, come ce ne sono stati tanti prima di me, e e ne saranno dopo di me. Lo sono al cento per cento, come sono al cento per cento italiano. Se la somma fa più di cento, non è colpa mia, ma della storia della mia gente, e della mia vita come l’ho vissuta”.
“Ho già indicato più volte – racconta Levi – la ragione della mia decisione di arruolarmi come ‘volontario dall’estero’ nell’esercito israeliano. Era semplicemente per me intollerabile il pensiero che si volesse e si potesse buttare a mare quella piccola comunità ebraica di alcuni centinaia di migliaia di sopravvissuti: ciò che tutti gli stati arabi, respingendo la spartizione della Palestina in due stati decisa dall’Onu dichiaravano a gran voce essere la loro precisa intenzione. E a prima vista avevano sulla carta tutti i mezzi per riuscire nel loro intento, essendo inferiori agli israeliani in una cosa sola: che gli israeliani si battevano per sopravvivere. Ma come non credere ai capi arabi, come Abd al Rahman Pascià, segretario generale della Lega Araba, che annunciava, con il consenso di tutti: ‘Sarà una guerra di sterminio, un terribile massacro, paragonabile alle stragi mongole e alle crociate’”?
da Pagine Ebraiche, dicembre 2010
(17 luglio 2016)