Qui Roma – L’esempio di Wiesel
Un Testimone della Shoah. Un leader militante per Israele. Un insegnante. Sono queste le tre identità con cui il direttore della Stampa Maurizio Molinari ha ricordato giovedì sera Elie Wiesel nel corso di una serata in sua memoria svoltasi a pochi giorni dalla sua scomparsa nel giardino del Tempio Maggiore di Roma. Un luogo scelto perché costituisce una metafora del ruolo plurale che ebbe Wiesel, “dal momento che si trova proprio in mezzo tra la Casina dei Vallati, la sede operativa della Fondazione Museo della Shoah di Roma, e la sinagoga, un luogo di studio, che lui riteneva così importante”, come ha spiegato il presidente della Fondazione Mario Venezia, che ha organizzato l’incontro, moderato dalla giornalista Ariela Piattelli.
Sia Venezia sia Molinari hanno condiviso con il pubblico il ricordo un loro incontro personale con Wiesel. Il primo nel 2010 quando il Testimone fu ospite d’onore della Camera dei Deputati per il Giorno della Memoria e in quell’occasione inaugurò anche una mostra della Fondazione; il secondo nei suoi anni passati a New York come corrispondente, dove frequentavano le stesse sinagoghe. Entrambi hanno messo in luce il contributo fondamentale di Wiesel nel delineare quello che deve essere il futuro della testimonianza e della trasmissione della Memoria della Shoah, quando chi l’ha vissuta in prima persona non ci sarà più. “Quando glielo chiesi, Wiesel mi mandò a partecipare alla cerimonia per Yom HaShoah in una sinagoga newyorchese”, ha raccontato Molinari. “Lì, vicino alle sei candele accese per i sei milioni di vittime, c’erano sei sopravvissuti, ognuno con un figlio o un nipote. I primi iniziavano a raccontare la loto storia, poi si interrompevano e i secondi proseguivano – ha spiegato – ed era lo stesso racconto, con gli stessi particolari, le date e gli avvenimenti tutti come se fosse la stessa persona a parlare. Uno spettacolo dalla potenza straordinaria”. “Il passaggio di testimone è facile a dirsi e difficile a farsi”, ha quindi aggiunto Venezia, che è figlio di Shlomo Venezia, sopravvissuto ad Auscwitz dove aveva svolto la funzione di Sonderkommando. “Quella di figlio di un sopravvissuto è una condizione particolare, poiché non si è Testimone diretto, ma nemmeno uno storico che può analizzare i fatti senza l’emotività. Ma arriva ora il momento drammatico – ha osservato – in cui è necessario uscire dall’aspetto sentimentale e prendere una posizione storica”.
In questo senso è possibile secondo lui anche comprendere il fatto che Wiesel fu insignito del premio Nobel per la Pace e non per la Letteratura nonostante i molti libri scritti. A essi egli affidò tutto il racconto della Shoah, ha aggiunto Molinari, mentre nei discorsi pubblici emergeva poco. Preferiva parlare di Israele, il cui sostegno “non era politico ma frutto di una questione identitaria, poiché per lui era impossibile ricordare la Shoah senza difenderlo. E in fondo – le sue parole – credo che ciò che lui profondamente amava fosse il popolo ebraico”. E come fonte primaria del suo rafforzamento, egli credeva nello studio. “Per Wiesel lo studio era un antidoto all’odio, e quando studiava e parlava di Talmud era il momento in cui si sentiva più se stesso. Per questo – la conclusione di Molinari – se dovessi scegliere una sola delle sue identità per parlare di Elie Wiesel, lo definirei uno studioso”.
f.m. twitter @fmatalonmoked
(17 luglio 2016)