Quali risposte all’intolleranza che si agita negli spalti italiani
Negli ultimi anni sono stati diversi gli episodi di intolleranza nelle diverse serie del calcio italiano. Si tratta di un fenomeno articolato, che come tale richiede investimenti e ragionamenti complessi. A riflettere con Pagine Ebraiche su quali strade intraprendere per contrastare questa situazione, alcuni protagonisti dell’informazione sportiva – i giornalisti Massimiliano Castellani, Dario Ricci, Guido D’Ubaldo ed Enrico Varriale – chiamati a rapportarsi con una società che cambia e che inevitabilmente influenza anche quello che accade sugli spalti, dove talvolta l’estremismo dilaga, e sul modo in cui questo viene raccontato dai grandi media.
“Guai a nascondere i problemi sotto al tappeto”
Giornalista e scrittore, Massimiliano Castellani promuove spesso battaglie scomode. Come quella sui silenzi che avvolgono le morti per Sla, “il male oscuro” del calcio. Il razzismo tra i gruppi estremi del tifo è certamente meno oscuro e più evidente. Ma non per questo, sostiene Castellani, va ignorato. Anzi.
Cambia la società italiana e cambia anche il mondo del calcio. L’informazione sportiva può avere un ruolo per veicolare valori sani e maggiormente condivisi? E se sì, da cosa bisogna partire?
L’informazione sportiva può avere un ruolo decisivo nel momento in cui si pone come strumento “culturale”. Lo sport, il calcio in particolare, sono parte integrante della cultura del nostro Paese e l’informazione attuale non può essere svilita e ridotta, come accade troppo spesso, a chiacchiera da bar sport e a un mero “giornalismo-tifoso” che si piega a logiche di mercato (anche mediatico) disconoscendo i valori principali di ogni movimento sportivo. Quindi occorre ripartire da un’informazione di base che si faccia carico di percorsi anche scolastici con ore didattiche dedicate alla storia e alla cultura dello sport. Questo secondo me sarebbe il primo passo per un’auspicata “nuova cultura sportiva”, ancora solo sbandierata dai vertici del governo dello sport italiano.
Si verifica un episodio eclatante di razzismo. Quale la scelta che ritieni più opportuna? Dargli grande risonanza oppure scegliere un profilo più basso, per non dare spazio a dei balordi?
Con il mio quotidiano, Avvenire,da anni portiamo avanti delle campagne contro ogni forma di razzismo nello sport. Lo abbiamo fatto con il supporto di atleti, di dirigenti e di sociologi come Mauro Valeri, responsabile dell’Osservatorio sul razzismo e antirazzismo nel calcio, con il quale periodicamente aggiorniamo la casistica del fenomeno cercando possibilmente di dare delle indicazioni per la riduzione dello stesso. Alla pubblicistica e all’informazione credo debba sempre seguire una applicazione ferrea delle norme. Finora ad esempio nei nostri campionati non si è mai sospesa in via definitiva una partita di calcio per cori razzisti o antisemiti nonostante vi sia una specifica norma federale che lo preveda e questo credo dia il senso di quanto ancora ci sia da lavorare.
Francia 2016 passerà alla storia come l’edizione degli Europei più blindata di sempre. Una grande sconfitta per tutti, su questo non ci piove. Paradossalmente però gli Europei possono rappresentare un’occasione, per un giornalismo sportivo forse meno “alto” di un tempo, per riappropriarsi di un racconto non limitato esclusivamente ai novanta minuti di gioco ma a tutto quello che si muove attorno (nel bene e nel male). Sei d’accordo con chi sostiene questa tesi?
Il calcio è blindato in quanto la società civile è ormai blindata, e costretta a difendersi dalla minaccia terroristica che tra l’altro ha visto nella Francia e nel vicino Belgio il maggiore focolaio europeo. Al di là delle vicende cronachistiche degli hooligans che, attenzione, non sono “tornati” ma sono solo “sopravvissuti” e nel tempo si sono mossi e organizzati in forme diverse e più sofisticate, c’è ancora per fortuna una letteratura che fiorisce sui campi di calcio e che si può raccontare per il piacere di un pubblico attento che chiede di poter leggere edificanti “storie di cuoio” – come facciamo noi ad esempio–che vanno ben al di là dei numeri statistici, delle chiacchiere da bar sport e che puntano decise ad arricchire lo scaffale tradizionale di quella che è e rimarrà per sempre la grande letteratura e l’autentica cultura dello sport.
“La cronaca è una cosa, la morale un’altra”
“Bisogna che l’informazione sportiva sappia distinguere tra la diversa gravità degli episodi. Keving Boateng che esce dal campo per via degli insulti razzisti è una notizia che merita di essere trattata con evidenza sui media. Uno striscione di odio nel terzo settore meriterà invece al massimo cinque righe, molto in sordina, sui quotidiani del giorno dopo. I cretini e gli estremisti esisteranno sempre, dobbiamo rassegnarci a questo fatto. Ma è fondamentale non regalargli la ribalta che molti di loro anelano”. A sostenerlo Dario Ricci, conduttore del programma settimanale di approfondimento Olympia su Radio 24 e vincitore nel dicembre scorso degli Oscar del giornalismo sportivo mondiale (gli Sport Media Pearl Awards 2015). Ricci, che fa dell’informazione di qualità un giusto motivo di vanto, sostiene l’incompatibilità del giornalismo con funzioni pedagogiche pure. “Non credo sia questo il nostro ruolo. Ci vuole attenzione, certo, per raccontare con professionalità lo sport e anche la società che cambia tutto attorno. I temi vanno sollevati, è importante che si discuta delle cose belle così come delle storture che spesso accadono in questo mondo. Ma io faccio il giornalista, non l’educatore. Non rivendo morale, ma faccio appunto informazione. Ci sono altre persone che devono svolgere in prima istanza questa funzione. La scuola, la rete formativa, i genitori”.
Secondo Ricci comunque la categoria “è molto meno peggio di come la si descrive”. Anche per le numerose difficoltà con cui è costretta a rapportarsi quotidianamente. Società ostili, o comunque poco collaborative. Un crescente distacco con i veri protagonisti, gli atleti, che appaiono sempre più inavvicinabili. “Raccontare lo sport a 360 gradi è sempre più difficile. Ma la forza di volontà aiuta a superare gli ostacoli. E, malgrado alcuni pregiudizi, in circolazione ci tengo a dire che ce n’è ancora molta”.
“Regole chiare per i colleghi”
“È importante che il giornalista non sia un soggetto neutro. I giornalisti devono prendere una posizione, nel loro perimetro d’azione, indicando chiaramente quelli che sono i comportamenti da stigmatizzare”. Caposervizio all’ufficio centrale del Corriere dello Sport, ma anche consigliere dell’Ordine dei Giornalisti, Guido D’Ubaldo è tra i principali animatori dei corsi di formazione che l’Ordine propone ogni anno a decine di migliaia di colleghi in tutto il paese (iniziativa cui partecipa anche Pagine Ebraiche, con seminari e corsi che hanno preso avvio negli scorsi mesi tra Veneto, Lombardia e Piemonte). Obiettivo: aumentare la consapevolezza dei giornalisti nelle diverse problematiche che sono chiamati ad affrontare. Una sfida quanto mai attuale in una società che cambia e per una informazione sportiva chiamata a recitare un ruolo da protagonista per non perdere lettori e credibilità. “Lo sforzo profuso dall’Ordine è molto significativo e ha portato, tra dicembre e gennaio, alla redazione del testo che ha unificato le carte deontologiche di riferimento per la categoria. Un testo, come è chiaramente spiegato, che nasce dall’esigenza di armonizzare i precedenti documenti deontologici al fine di consentire una maggiore chiarezza di interpretazione e facilitare l’applicazione di tutte le norme, la cui inosservanza può determinare la responsabilità disciplinare dell’iscritto all’Ordine. Ad essere recepito – spiega D’Ubaldo – è quindi anche il decalogo del giornalismo sportivo, con tutti i suoi doveri”.
Quale la linea corretta da seguire per raccontare un episodio di intolleranza e discriminazione? “La mia idea – dice D’Ubaldo – è che sia sbagliato dare una visibilità eccessiva. I fatti vanno registrati, ma senza una enfasi eccessiva”. Per il collega, le disposizioni della Figc in materia stanno iniziando a dare frutti. In particolare con la norma in cui si prevede il direttore di gare possa interrompere l’incontro qualora dagli spalti arrivino segnali di ostilità e razzismo. “Il percorso è lungo e complesso. Ma ho comunque l’impressione che dopo l’introduzione di queste regole – afferma – qualcosa sia mutato in meglio”. L’importante, aggiunge, è che anche i giornalisti facciano la loro parte. “Poche cose son più dannose della figura del giornalista-tifoso, che spesso pecca di obiettività per non danneggiare la propria squadra. Affinché questo problema venga risolto è fondamentale che vi sia un controllo sempre più rigoroso nelle tribune stampa”.
“Funzione essenziale del servizio pubblico”
“Appare evidente come la mala pianta del razzismo si articoli in varie forme. Quello territoriale, quello etnico, quello con dei con- tenuti religiosi. La mia idea, da sempre, è che il servizio pubblico non possa censurare quello che di negativo talvolta accade sugli spalti. La Rai mi pare si stia muovendo nel modo giusto. Non è tacendoli infatti che i problemi si risolvono”. Storico volto di Raisport, Enrico Varriale è noto per la sua franchezza. Una franchezza che conferma in questo colloquio e che lo porta a considerare imprescindibile una riflessione urgente e puntuale “su un tema che è di stretta attualità”.
Perché se è vero che dando risalto a episodi di intolleranza il rischio è di solleticare il protagonismo “di qualche idiota, che non aspetta altro” appare comunque fondamentale, ai suoi occhi di cronista, “informare la gente, far sì che si sviluppino solidi anticorpi”.
Lo stadio non è un teatro, ed è anche giusto che mantenga questa prerogativa. Però al tempo stesso, sottolinea Varriale, deve riaffermarsi come luogo di civiltà: su questo non possono esserci fraintendimenti”. L’esempio citato è quello del calcio inglese, che (almeno in patria) sembra aver messo in un angolo gli estremisti e i più violenti. Federazione, società, tifosi, calciatori: insieme, sulla stessa barca, remando nella stessa direzione, affinché lo sport faccia parlare di sé soltanto per i risultati, il gioco, il calore umano. “Se vogliamo che qualcosa cambi tutti i protagonisti di questo mondo devono fare la loro parte. L’impegno in parte c’è già, ed è tangibile a fronte di ostacoli non semplici da superare. L’importante è che non manchino mai coerenza, chiarezza, volontà di an- dare a fondo dei problemi. Per questo – afferma Varriale – è es- senziale che l’informazione non si tiri mai indietro, evidenziando le lacune e chiamando le cose col loro nome”.
A cura di Adam Smulevich
da Pagine Ebraiche, luglio 2016
(19 luglio 2016)