JCiak – Asaph Polonsky, debutto da premio
È stato Asaph Polonsky con One Week and a Day – Shavua Veyom a spuntare il premio come miglior film israeliano al da poco concluso Jerusalem Film Festival. Già vincitore del Prix Fondation Gan à la diffusion della Settimana della critica il film di Polonsky, che narra in chiave ironica il ritorno alla routine di due coniugi dopo la morte del figlio, si è aggiudicato anche i riconoscimenti come miglior opera prima e miglior sceneggiatura.
Il premio come miglior documentario israeliano è andato a Dimona Twist di Michal Aviad, toccante intreccio di storie d’immigrazione al femminile. Nella sezione internazionale, quest’anno alla prima edizione, si è infine piazzato al primo posto The Death of Louis XIV del catalano Albert Serra, racconto claustrofobico delle ultime ore del Re Sole, interpretato dal grande attore francese Jean-Pierre Léaud.
In One Week and a Day Asaph Polonsky, nato in America e cresciuto in Israele, riesce nella difficile impresa di raccontare il momento più impervio del lutto, quello che viene dopo la shiva. In questo caso a dover rientrare nella vita di tutti i giorni sono un uomo e una donna che hanno perduto il figlio.
I due reagiscono in modo opposto. Lei (Evgenia Dodina) tiene a bada il dolore immergendosi nelle incombenze quotidiane. Sistema la casa, va dal medico, rincorre le scadenze: ogni commissione è buona pur di non pensare. Lui (Shai Avivi) lascia andare ogni inibizione. Litiga con i vicini, sperimenta la cannabis, fa amicizia con il figlio dei vicini, zampetta assieme al gatto. Gli inevitabili scontri fra marito e moglie e l’umorismo di tante situazioni strappano la risata, anche se non mancano – non potrebbe essere altrimenti – i momenti di commozione. Come sottolineato dalla giuria del festival, “per la sua capacità di modulare il tono e per il suo ottimo lavoro con un piccolo cast, il giovane regista mostra una straordinaria maturità”.
Il documentario Dimona Twist si concentra invece sulle storie di sette donne, arrivate in Israele per nave tra il 1950 e il 1960 e mandate direttamente a Dimona, la città da poco costruita nel deserto. La narrazione delle protagoniste, arrivate dal Nord Africa e dalla Polonia, spazia dalla nostalgia di casa alla povertà, dalla difficoltà di adattamento all’impegno per costruirsi una nuova vita. Il lavoro di Michal Aviad mescola le loro voci a immagini d’epoca in una prospettiva fresca e commovente di uno squarcio di storia che al tempo stesso è privato e profondamente pubblico.
Fatta eccezione per il premio come migliore attrice a Shiree Nadav-Naor, esce invece a mani vuote Beyond the Mountains and Hills – Me’ever laharim vehagvaot di Eran Kolirin, uno dei film più interessanti del festival. L’ultimo lavoro del regista di La Banda (2007) racconta la crisi di coscienza di un militare che dopo trent’anni nell’esercito fa ritorno alla vita civile. Kolirin mette a fuoco una famiglia israeliana come tante, middle-class, padre madre e due figli.
Fisicamente i protagonisti vivono a stretto contatto con i vicini palestinesi ma dal punto di vista psicologico ne sono distanti anni luce. Kolirin sviluppa il conflitto fino all’estremo, mostrando fino a che punto possono arrivare negazioni, confusioni, inganni in un film forse troppo politico per un’edizione del festival che sotto questo profilo sembra essersi mossa con certa cautela.
Tra gli altri premi si segnalano come miglior attore Moris Cohen, che in The Father di Meni Yaesh interpreta un buttafuori nei nights di Tel Aviv che per esaudire il suo sogno di diventare padre si immerge nel mondo equivoco dello strozzinaggio. Migliore fotografia per Yaron Scharf in Harmonia di Ori Sivan e migliore colonna sonora per Ruth Dolores Weiss in We Had a Forest di Guy Raz. Saving Neta di Nir Bergman – storia di come un uomo, Neta appunto – finisce per cambiare le vite di quattro donne, è stato infine votato dal pubblico come film preferito.
Daniela Gross
(21 luglio 2016)